Editoriale del direttore

Da L'Avvenire dei lavoratori - Periodico socialista dal 1899.



Indice

LA PAROLA "MOBILITARSI"

Editoriale di Andrea Ermano - lunedì 20 settembre 2010


Il Vaticano e la Confindustria giocano a frammentare una rappresentanza politica unitaria della laicità e del mondo del lavoro.


Giunti al punto in cui siamo, l’ultima cosa di cui si sentiva l’esigenza era il deflagrare delle contraddizioni interne al PD. Contraddizioni che vengono da lontano. Grosse, crasse, evidenti. Ma meglio sarebbe se non esplodessero adesso.

E invece è proprio ciò che si è temuto con la ridiscesa in campo di Veltroni. Che ora nega di avere detto al suo partito che ci vuole “un papa straniero”, con buona pace delle primarie e degli statuti secondo cui il leader è Bersani in quanto segretario nazionale emerso da un vasta consultazione.

Veltroni ha raccolto stavolta una ben scarsa degnazione. Gli hanno voltato le spalle persino la “sua” direttrice dell’Unità, Concita de Gregorio, e il vecchio mentore, Reichlin, che – “sorpreso, preoccupato, allibito” – ha stigmatizzato “la vanità e l'inconcludenza… delle polemiche che lacerano la sinistra”.

Autorevoli osservatori vedono in questa frattura un sintomo terminale della crisi che attanaglia il maggior partito d’opposizione. Ognun capisce che, se il centro-sinistra non riprendesse quota ora che l’astro di Berlusconi tramonta, il PD potrebbe sfarinarsi, completamente. La destra coglierebbe un’insperata vittoria nella prospettiva (probabile sebbene non immediata) di elezioni anticipate.

Qui si nasconde l’insidia più grande per il popolo di sinistra, popolo molto paziente, che, dopo tre lustri di sueño che avanza, rischia ora di risvegliarsi in uno scenario nel quale le destre potrebbero varcare il Rubicone della maggioranza qualificata puntando dritte sulla Costituzione della Repubblica.

L’insidia non nasce dalla possibilità (già di per sé inquietante) che alla prossima tornata elettorale Berlusconi (o chi per lui) raccolga un’altra volta consensi maggiori a quelli del PD e quindi grazie al “porcellum” si aggiudichi la dotazione del 55% dei seggi “per la governabilità”.

Non è questa l' insidia più grande. Il rischio vero è che, insieme al predetto 55% dei seggi, la destra possa disporre di uno zoccolo aggiuntivo intorno al 10%, nel torbido gioco delle parti che già vediamo delinearsi tra Lega Nord e Partito del Sud. Se la destra, nelle sue ambigue articolazioni, riuscisse ad attestarsi sulla soglia dei due terzi dei seggi parlamentari, le si spalancherebbe la possibilità di stravolgere la Costituzione.

Il gruppo dirigente del PCI-PDS-DS-PD porta su di sé gravi responsabilità per questa situazione politica incresciosa. Che cosa può fare per rimediare? Anzitutto dovrebbe abbandonare la pazza pazza idea di dare sintesi, dentro a un partito unico dell’eccezione italiana, al tradizionalismo cattolico, al mercatismo capitalista e alle aspirazioni del movimento operaio. Una sintesi di questo genere può realizzarsi in una coalizione di partiti secondo il ritmo delle stagioni politiche, degli accordi di governo, delle legislature. Ma non è mai avvenuta dentro a un unico partito, e men che meno in un partito di sinistra.

Fatta ovvia astrazione dalla questione ambientale, che è trasversale, pare che un partito di sinistra possa (e quindi debba) portare a sintesi due interessi: il laborismo sociale e la laicità dello Stato. Il luogo di questa sintesi s’identifica, storicamente, con il socialismo democratico europeo. Nulla vieta ai tradizionalisti cristiani di osteggiare una visione secolarizzata dello stato e impegnarsi solo in una qualche forma di solidarismo o di carità. Così, nessuno impedisce ai fautori della libera impresa di sostenere un sano laicismo opponendosi sull'altro versante a ogni rivendicazione sociale. Ma non è un caso se, intorno a queste costellazioni, si sono formate, nel corso del tempo, tre grandi famiglie politiche europee: la famiglia socialdemocratica, quella popolare e quella liberale.

Il PCI-PDS-DS-PD, che trae la stragrande parte dei propri consensi dal popolo di sinistra nel quale il valori laico-laboristi risultano largamente egemoni, farebbe un gran bel piacere a se stesso qualora si ponesse stabilmente sotto l’egida del socialismo democratico europeo. E bisogna dare atto qui a Bersani di avere seguito un serio percorso di ritorno alla ragione dopo l’avventura veltroniana; avventura disastrosissima quant'altre mai, essendo costata la caduta del governo Prodi, la lacerazione dell’intero tessuto del centro-sinistra italiano, la sconfitta alle elezioni politiche, il ritorno di Berlusconi a Palazzo Chigi, le sconfitte a Roma, in Sardegna ecc., il crollo dei consensi dello stesso PD dal 33% al 23%. Bisogna dare atto a Bersani di avere iniziato a recuperare consensi e credibilità lungo una linea moderatamente socialdemocratica.

Vaticano e Confindustria non apprezzano nulla di tutto questo, ovviamente. E, quindi, si capisce che Bersani non trovi grandi sponde nel sistema dei mass media italiani, che dai “poteri forti” dipendono.

Vaticano e Confindustria pongono, e non certo da oggi, vuoi sulla laicità, vuoi sul laborismo, i loro veti incrociati, che poi non sono neanche dei veri e propri “veti”, ma solo come dire degli “sconsigli”, e però hanno lo stesso effetto di un veto, nel diffuso clima di conformismo e ipocrisia. Non per caso, dopo la scissione di Livorno e l’avvento del fascismo, l’Italia non ha più avuto una grande e solida forza riformista.

Vaticano e Confindustria giocano a frammentare una rappresentanza politica unitaria della laicità e del laborismo, anche perché la famiglia socialdemocratica europea presenta caratteristiche di autonomia incompatibili con i pizzi e i pizzini del Gattopardo nazionale.

I veti incrociati di Vaticano e di Confindustria hanno una loro logica, rispondono alla gelida autoreferenzialità dei “poteri forti” italiani. Ma la gelida logica del potere comporta ormai un serio pericolo per gli equilibri democratici nel Paese.

Se la tenuta del centro-sinistra diventa l’ultima vera garanzia per la tenuta dell’assetto istituzionale nato con la Costituzione del 1947, è giunto allora il momento d’iniziare a mobilitarsi.

Con animo tranquillo, ma fermo, iniziamo a ripetere questa parola: mobilitarsi, mobilitarsi, mobilitarsi. (20.9.2010)


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Cara bambina di Pomigliano d'Arco

Editoriale di Andrea Ermano - lunedì 21 giugno 2010


Cara bambina di Pomigliano, che mi poni le tue ingenue domande circa questa nostra Repubblica fondata sulla "Futura Panda", non è facile trovare le risposte giuste, ma, insomma, vediamo.


Anzitutto, piccola mia, devi sapere che in un mondo nel quale tutti gli indicatori hanno iniziato a oscillare paurosamente, l’establishment italiano (e non solo italiano) tenta di correre ai ripari.

Così, la Fiat abbandona la Polonia e riapproda a Pomigliano d'Arco che aveva abbondonato molti mesi or sono. E tu chiedi perché? Già, perché la Fiat, adesso, trova utile posizionarsi nella la tua città?

Probabilmente perché vuol muovere alla conquista di quella che si preannuncia la nuova grande area emergente nell’economia mondiale globalizzata, l’area del “Mediterraneo allargato”. Si dice che verosimilmente per questa ragione la Fiat abbia firmato l’accordo, nonostante il “no” della Fiom.

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L’area campana rappresenta il luogo più adatto a proiettarsi nella nuova sfida dell’export automobilistico. La Fiat vuole ricollocarsi nell’area campana in quanto questa riunisce almeno quattro vantaggi e non da poco: a) i salari più bassi dell’Europa occidentale, b) il know-how automobilistico italiano, c) la grande infrastruttura portuale napoletana, d) l’estrema prossimità con il “Mediterraneo allargato”.

Parafrasando Hans Ruh, potremmo chiederci perché Berlusconi e Marchionne non propongano ai governanti maghrebini di celebrare presso i loro popoli qualche referendum tramite il quale sapere se i predetti popoli desiderino davvero andare a vivere anche loro in un futuro fatto di sviluppo fondato sulla Panda.

Referendum inutili e paradossali, ovviamente, perché la Panda è un destino.

Non si sfugge al destino, mia cara. Così il destino della mia generazione è stato lo smog, mentre alle generazioni più giovani si è riservata la monnezza. E chissà che cosa ti aspetta quando sarai grande tu, cara bambina di Pomigliano.

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Pomigliano val bene una messa... Una messa “in quel posto” agli operai, si sarebbe detto un tempo, ma l’espressione suonerebbe oggi troppo greve e volgare, e quindi non la si usa più. Io qui ne ho fatto menzione per ragioni puramente storico-documentarie.

In cambio della “messa” di Pomigliano, la Fiat ha chiesto un bel po’ di contropartite, sapendo perfettamente che andranno poi ricontrattate in corso d’opera. Almeno sul piano salariale. O almeno lo speriamo. Ma intanto hanno trovato le parole per confessare l'inconfessabile.

Tu, comunque, non stupirti, cara bambina, e impara ad accettare la realtà finché sei piccola.

Era assolutamente necessario che gli imprenditori padani chiedessero, chiedessero e chiedessero.

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Questo "chiedere per non dare" era necessario affinché a voi meridionali non vengano in mente strane idee circa il vantaggio di posizione che vi attende proprio lì, dietro a questo "Tornante della Storia", come il nostro Ministro dell’Economia e della Retorica ama definire il rischio di bancarotta cui l'Occidente è esposto dopo un ventennio di liberismo selvaggio.

La destra padana porta a casa un evidente vantaggio perché l’asse del dibattito si sposta “a destra della Costituzione”, che viene contrapposta (non senza ricatto) al desiderio di lavoro degli operai.

La Cgil subisce una frattura non trascurabile.

Un alto esponente della destra ha dichiarato che anche gli operai trarranno un grande vantaggio morale dall’accordo, datosi che ricominceranno finalmente a guadagnarsi il salario con il sudore della fronte dopo aver profittato per anni della Cassa integrazione mentre lavoravano in nero, magari per organizzazioni camorristiche o giù di lì.

Così ha parlato un alto esponente della destra.

Ma tu non offenderti, cara bambina, e impara ad accettare il torto dell’oppressore, la contumelia dell’uomo superbo.

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Immagino che tu ti sia domandata, nella tua testolina, che cosa significa “Mediterraneo allargato”. No, non occorrerà allargare il mare per far spazio al Ponte sullo Stretto di Messina. Non devi andarmi a pensare che il Piano Grani Eventi e Grandi Opere preveda lo spostamento a est del Bosforo o a ovest delle Colonne d’Ercole.

Quando parlano di “Mediterraneo allargato”, loro si riferiscono in sostanza all’antico territorio dell’impero romano che si estendeva per tutta l’Africa settentrionale e per il Medioriente, fino all’Iraq. È soprattutto lì che la globalizzazione produrrà, sembra, nuove efflorescenze d’urbanesimo; ed è lì che le masse d’inurbati avranno “bisogno”, sembra, delle nostre automobili.

Lo so, tu che sei piccina, penserai ora a tuo nonno l’altro giorno bofonchiava qualcosa sull'imperialismo straccione. Be', in fin dei conti il plot fondamentale della cultura politica italiana è quello lì.

E sempre lì si tende a tornare, finché il nostro Paese non rifletterà seriamente sul proprio passato.

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Nell’auto-interpretazione nazionale, come imparate a scuola, il Novecento si compone anzitutto del Piave, che mormorava calmo e placido al passaggio degli Alpini il 24 maggio. Poi è arrivato un omone, non poi così cattivo. Dopo un po' è arrivato anche Bruno Vespa e – oplà – ecco gli Americani. A quell'epoca (Epoca dello Sbarco) loro, a forza di navigare su e giù per l'Atlantico sono scivolati dentro al Mediterraneo, detto anche Mare Nostrum, sbarcando inevitabilmente dalle nostre parti.

Poi, i soldati di quello che tuttora è uno dei più potenti eserciti del mondo risalirono disordinatamente le valli che altri avevano disceso con orgogliosa sicurezza. E, attestandosi sempre più a nord, dai loro camion presero a tirare di qua e di là cioccolate, preservativi e stecche di sigarette. Fu così che arrivarono in Europa.

Anche noi prendemmo a guardare all'Europa. Lì c'erano gli Americani. Sembra che stessero in Europa per tenere d'occhio l'Atlantico, dove possedevano l’omonimo Patto. Che però adesso vive una esperienza esotica, tipo Laurence d’Arabia. Insomma, loro in questo momento si sentono attratti più dal Pacifico che dall’Atlantico.

E quindi anche noi guardiamo più al Mare Nostrum che all’Europa.

Grazie al Mare Nostrum, abbiamo già risolto il problema degli sbarchi a Lampedusa: ricordi tutte le migliaia di individui indesiderati in procinto di delinquere in quanto aspiranti immigrati clandestini. Pare che costoro, grazie al governo di Tripoli, vengano trattenuti in appositi campi di trattenimento, in attesa di ricevere il sacramento del battesimo cattolico dalle mani del card. Biffi e una 850 coupé da quelle del dott. Marchionne.

Ignori i nostri programmi umanitari? Questa materia non è ancora in programma a scuola? Vedrai che la Gelmini ce la mette, magari affidandola agli insegnanti di religione.

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Vuoi sapere quel che penso io di tutto questo? Io, cara la mia bambina di Pomigliano, penso che alti guai attendano la nostra povera Italia, se ora si tuffa nel “Mediterraneo allargato”, fuori da una seria concertazione europea, in eventuale dissidio con la politica estera occidentale e magari fidando sul sostegno degli amici Putin e Gheddafi.

Diceva una volta un vecchio: “Occorre aggrapparsi all’Europa”. Aggiungo io: in Europa occorrerebbe aggrapparsi a un serio dibattito sull’uso che i popoli potrebbero (e quindi dovrebbero) fare dell’Unione a favore di una Governance politica globale.

Non capisci la parola “Governance”? Uhm, vediamo. “Governance” significa che ciascuno contribuisce a evitare il caos, il panico e le guerre. Come? Facendo ciascuno la propria parte per favorire un ragionevole contenimento dell’anarchia capitalistica, delle guerre di religione e dei disastri ambientali.

Su questo “uso dell’Europa” occorrerebbe, bambina mia, sollecitare una grande discussione collettiva in ogni sezione di partito.

Peccato che non ci siano più né i partiti né le sezioni.

Di tutta la “vecchia politica” finita sotto i cingoli del "nuovo che avanza" una cosa hanno salvato. Una sola. Porta anch'essa un nome in odore vago di "coniche". Ma appunto non si tratta delle "sezioni". (21.6.2010)


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Quale storia attende laggiù la sua fine?

Editoriale di Andrea Ermano - sabato 26 febbraio 2011


Ha avuto l’idea di sgominare l’opposizione, rea di voler scendere in piazza contro l’aumento del pane. Ha assoldato accolite di mercenari stranieri, di fronte ai quali il popolo libico si è ribellato. E lui allora gli ha scatenato addosso l’aviazione militare che ha bombardato la folla manifestante. Ne è conseguita un’insurrezione generale. Lui ha definito “ratti” gli oppositori e si è asserragliato nel suo bunker dove attende ora l'arrivo degli insorti.

Come definireste questo despota?

Il nostro attuale Presidente del Consiglio dice trattarsi di un “pazzo”.

Dunque, sarà stato per assecondare un pazzo che l’Italia ha firmato trattati d’imperitura amicizia, erogando finanziamenti miliardari, in una ridda di forniture miliardarie, per armi e tecnologie militari contro gas e petrolio. Una gigantesca "psicoterapia"?

Nella transizione libica dal reality alla realtà si è spalancata una fossa, con dentro migliaia di morti e feriti. Ma già prima non si contavano gli orrori commessi ai danni dei profughi sub-sahariani nelle operazioni di "trattenimento".

Circa la sanguinosa repressione di questi giorni, Emma Bonino ha denunciato la presenza di cittadini europei, e in particolare italiani, tra i mercenari accorsi a Tripoli per qualche migliaio di dollari al giorno.

Il tramonto di una dittatura "non sempre annuncia l’alba della democrazia", come nota proprio da queste colonne Renzo Balmelli, che per inciso è stato uno dei non molti commentatori ad aver preannunciato sonni poco tranquilli per il Colonnello (vedi ADL 12.2.11).

Non dimentichiamo che la Libia è un paese nel quale abbondano le fonti d'energia. Soprattutto il deserto offre nuove prospettive, gigantesche, di sfruttamento della radiazione solare. Quale storia attende laggiù la sua fine? (26.2.2011)


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Evoluzione più benigna ?

Editoriale di Andrea Ermano - venerdì 3 settembre 2010


L'Italia non solo avrebbe necessità di superare il “porcellum”, ma anche l’esigenza che tale evoluzione abbia luogo in un quadro di larghissime intese. Ecco perché.


La traiettoria assunta dal conflitto d’interessi nel corso delle note violenze mediatiche estive guidate dal presidente del Consiglio contro il presidente della Camera evoca per certi versi quella celebre Locomotiva di Guccini, “lanciata a bomba” contro la terza carica dello Stato. Con tragicomica confusione dei ruoli, però, dato che qui, nelle vesti dell’attentatore suicida, entra in scena non un macchinista proletario, ma uno zar miliardario.

A evitare la deflagrazione istituzionale finale è soccorso a mezza estate il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, garante dei residui equilibri tra poteri dello Stato. E contro di lui, in nome di una legge elettorale nota nella letteratura politologica sotto il nome di “porcellum”, il premier ha rivendicato la facoltà di porre fine alla legislatura quando il suo esecutivo finisse sfiduciato.

Ora, il “porcellum” prevede soltanto che le coalizioni candidatesi al governo del Paese depositino un programma e il nome di un leader. Nello spazio logico del Cavaliere questo significa però che, qualora egli perdesse la maggioranza in Parlamento, ciò comporterebbe il divieto alle forze politiche di formare una nuova maggioranza e, soprattutto, l’obbligo per Napolitano di chiudere la legislatura indicendo elezioni anticipate.

Che ne è del presidente della Repubblica e dei suoi poteri (tra cui quello d'indire o meno nuove elezioni)?

Nello spazio logico del Cavaliere, le prerogative del Capo dello Stato vengono liquidate alla stregua di meri “formalismi costituzionali”. Nello spazio logico del Cavaliere, il “porcellum” – che è una legge ordinaria – vale quanto e più di una riforma costituzionale poiché pretende di revocare una delle principali attribuzioni del Capo dello Stato. Eppure su questo argomento il “porcellum” stesso recita così: “Restano ferme le prerogative spettanti al Presidente della Repubblica” (Art. 3).

Tenendo fermo quest'ultimo punto, si capisce che è la coalizione vincolata al suo leader e, viceversa, il leader vincolato alla sua coalizione, ma il presidente della Repubblica resta il presidente della Repubblica.

Se, per esempio, i finiani uscissero dalla maggioranza e mettessero in minoranza Berlusconi, la coalizione in quanto tale non esisterebbe più. E il leader, vincolato a essa, avrebbe il dovere di farsi da parte. Perché il vincolo del “porcellum” pertiene al leader e alla sua coalizione. Mentre non impegna, né può in nessun caso impegnare, il Capo dello Stato. E non impegna nemmeno le due Camere in quanto ogni parlamentare, per la Costituzione, rappresenta la nazione “senza vincolo di mandato”.

Per mutare le prerogative del Presidente della Repubblica (o quelle delle due Camere o dei parlamentari in esse) occorre modificare la Costituzione. Per farlo, senza dover sottoporre poi il nuovo testo a verifica referendaria, non bastano le maggioranze semplici e quindi non bastano né i numeri del centro-destra attualmente al governo né quelli del centro-destra al governo nel 2005, anno in cui fu approvato il “porcellum”. Lo stesso discorso vale ovviamente anche per le varie maggioranze di centro-sinistra guidate da Prodi, D’Alema, Amato e poi ancora da Prodi. E identicamente varrebbe per Bersani se fosse lui a portare il nuovo Ulivo al governo.

Per mutare le prerogative del Presidente della Repubblica (o delle due Camere o dei parlamentari in esse) l’Art. 138 della Legge fondamentale esige una maggioranza qualificata dei due terzi.

Il “porcellum” – ben lungi dal possedere questo grado di legittimazione – è solo una legge ordinaria, approvata da una maggioranza semplice che a sua volta è espressione di una coalizione uscita vincente dalle urne dopo avere semplicemente raccolto più voti di altre liste o coalizioni: una “maggioranza relativa”. Ma una “maggioranza relativa” che, in forza di meccanismi elettorali, sia stata trasformata in “maggioranza assoluta” nel Parlamento, resta non di meno minoranza nel Paese. Ha sì titolo per governare, ma certo non per cambiare la forma e i principi dello Stato.

Da quanto detto consegue, a fil di logica, non solo la necessità di superare il “porcellum”, che come ebbe a dire il suo stesso autore è una vera “porcata”, ma anche l’esigenza che tale evoluzione abbia luogo in un quadro di larghissime intese capaci di suscitare il consenso dei due terzi del Parlamento intorno a una nuova legge elettorale.

È questa la strada che l’Italia imboccherà, come spera Napolitano, “verso un’evoluzione più benigna” della vicenda politica? Sembra quasi impossibile. Eppure, un governo di larghissime intese, impegnato su una legge elettorale equa e adeguatamente condivisa, rappresenterebbe un bel passo avanti nel cammino delle riforme necessarie al Paese. (3.9.2010)


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Dieci piccole epsilon

Commento di Andrea Ermano - sabato 5 marzo 2011


"Può la politica assumere la verità come categoria per la sua struttura?" – Nella seconda parte del suo libro su Gesù, d’imminente uscita, papa Ratzinger s’interroga sulla celebre domanda pronunciata dal “pragmatico Pilato” un tragico venerdì di circa duemila anni fa.


Tutti sanno che i politici romani portano su di sé responsabilità storiche. Ad asserirlo stavolta non è Bossi, ma Joseph Ratzinger che, nella seconda parte del suo libro su Gesù, d’imminente uscita, s’interroga sulla celebre domanda pronunciata dal “pragmatico Pilato” un tragico venerdì di circa duemila anni fa.

Un predicatore nazareno sta in piedi davanti al governatore nel pretorio. È imputato di vilipendio all’autorità civile e religiosa, reato grave ove non sacrilego. Potrebbe costargli la vita.

Il giovane intellettuale della Galilea si mette a parlare di verità, dichiara di essere venuto al mondo per testimoniare la “verità”. Un fanatico?

“Che cos’è la verità?” – gli chiede a bruciapelo il prefetto, tanto per vedere quale definizione abbia in mente l’imputato. Dopodiché sarà facile chiedergli perché mai la sua verità debba coincidere con la Verità vera, quella con la “V” maiuscola.

L’imputato tace. Dopo qualche istante l’intero quadro accusatorio appare a Pilato del tutto inconsistente: “Non trovo nessuna colpa in lui”, constata.

Poi, però, invece di proscioglierlo, lo spedisce sul patibolo. È per via di un mezzo plebiscito, inscenato sotto il balcone da una tifoseria ululante.

Che importa se l’innocente non è colpevole? Che cosa significa innocente, o colpevole? Che cos’è, appunto, la verità?   In politica i rapporti di forza contano. E per lo più i rapporti di forza discendono in politica da semplici quantificazioni: tanti i sostenitori, tanti gli oppositori, tanti gli indifferenti.

Qui s’inserisce la domanda ratzingeriana: ”Può la politica assumere la verità come categoria per la sua struttura?“.

Un bel dilemma, perché o la politica è totalmente incapace di verità (e l’unica sua legittimazione sta allora nella violenza, nella corruzione e nella frode), oppure bisognerà pur poterlo sciogliere, questo paradosso di Ponzio Pilato, cioè ‘mostrare’ finalmente un grano di verità in politica.

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Uno schema di soluzione, si può forse provare a tratteggiarlo partendo da quella “curvatura” dello spazio interpersonale che chiamiamo Linguaggio.

Sull’isola di Delfi – patria del Linguaggio (Conosci te stesso! Nulla di troppo!) – antichi scultori inscrissero la lettera greca “E”, una grande Epsilon, la inscrissero nel frontone del tempio di Apollo. Questa grande Epsilon, ad ascoltare Plutarco, indicava la seconda persona del verbo essere: Tu sei. Tu esisti.

Analogamente, in ogni parola umana è inscritto un piccolo indizio cui di solito non badiamo, ma che intende sempre e comunque l’esistenza reale di un “tu” capace di ascoltare quella parola. Ciò che vale anche per la parola “verità”, e per essa anzi vale a ben maggior ragione.

La verità della verità si svela essere un “tu” che emerge come significato sostanziale dal linguaggio umano, comunque, dovunque.

La verità della verità s'incarna nella sostanza prima dell'altro essere umano. Fin dall’inizio della riflessione sulle categorie, già in Aristotele, la categoria di sostanza prima è regolarmente associata a un essere umano. Né esso ammette un maggiore o minor grado di sostanzialità, afferma il Filosofo. Tutti gli esseri umani sono pari in sostanzialità e umanità, cioè pari in dignità.

Ecco, a partire da questa categoria sostanziale della dignità umana, la politica – ma non solo essa – può e deve farsi carico della verità a lei propria, una verità faticosa, priva di sfarzo. Inesauribile nella sua capacità critica. Inservibile in funzione dogmatica.-


P.S.: Nel suo Dizionario delle sentenze latine e greche, Renzo Tosi menziona un "curioso aneddoto", secondo cui Gesù avrebbe risposto alla domanda "Quid est veritas?" con un arguto gioco di parole: "Est vir qui adest" (È l'uomo che ti sta davanti): anagramma. – Non pare storicamente verosimile che i due possano aver conversato in latino, ma se non è vera, è ben trovata.


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Punire Welby, vivo o morto

Editoriale di Andrea Ermano - venerdì 26 novembre 2010


È di queste settimane la notizia secondo cui Papa Benedetto XVI ha costituito un nuovo dipartimento vaticano finalizzato alla rievangelizzazione dell’Europa. A capo c’è, fresco di nomina, monsignor Fisichella, già presidente della Pontificia Accademia della Vita.

Un primo saggio di rievangelizzazione a favore della “Vita” ci è stato fornito dal quotidiano Avvenire sul caso di Mina Welby, rea di avere ricordato suo marito, Piergiorgio, con Roberto Saviano e Fabio Fazio alla trasmissione televisiva “Vieni via con me”.

Chi era Piergiorgio Welby? Un uomo completamente paralizzato dalla distrofia muscolare progressiva, costretto a vivere con una perforazione della trachea dove gli era fatta passare l’intubazione di collegamento al respiratore automatico, giorno e notte, giorno dopo giorno, anno dopo anno.

Mai e poi mai Piergiorgio aveva desiderato ritrovarsi in questo stato. E, in base alla Costituzione secondo cui “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario” (Art. 32), chiedeva che gli si “staccasse la spina”. Ci furono aspre polemiche, da parte delle gerarchie cattoliche: "Diabolico inganno!", tuonò il Consiglio episcopale permanente.

Il malato fece recapitare una lettera al Presidente della Repubblica Napolitano e, dopo molte peripezie, il 20 dicembre del 2006, oltre nove anni di accanimento terapeutico alle spalle, prese congedo dai suoi parenti e amici. Chiese da ultimo di ascoltare una canzone di Bob Dylan. Poi fu sottoposto a narcosi, secondo la sua volontà. Il respiratore venne staccato. E Piergiorgio Welby, dopo alcuni minuti, si spense.

Non si spensero, però, le polemiche vaticane. Al punto tale che il Vicariato di Roma vietò alla famiglia le esequie in chiesa. E ora bisogna rincarare la dose, visto che Mina ha raccontato la sua storia in tv. Il giornale dei vescovi italiani chiede che, nella stessa trasmissione, sia data la parola anche alla “cultura della vita”, dopo che la si era concessa alla “cultura della morte”.

Tutti gli osservatori si stupiscono della presenza straripante della Chiesa nella tivù italiana, ma in effetti è possibile che ce ne sia ancora troppo poca, date le condizioni in cui versa il Paese non ostante cotanto magistero morale.

Evidentemente, c’è ancora chi ritiene di dover bucare l’esofago alle persone distrofiche, anche se dissenzienti, onde tenerle attaccate a dei respiratori artificiali per anni.

Domanda: E se uno dissente in nome della sua libertà personale?

Risposta: Niente funerale.

Ma, scusate, non era "seppellire i morti" la settima opera di misericordia corporale? Certo che lo era, ma ormai questo è lo stato della nazione.

Come nella famosa scena nel Dottor Stranamore di Kubrik (quella con il saluto romano che emerge compulsivo dal braccio artificiale), così nel catechismo dell'Italia rievangelizzanda si aggiunge un'ottava opera: "Punire Welby, vivo o morto". (26.11.2010)


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Discernimento tra eutanasia "attiva" e "passiva"

Commento di Andrea Ermano - venerdì 12 novembre 2010


Una valutazione molto generale del problema "eutanasia" può prendere le mosse dal principio secondo cui la vita di una persona si configura come un bene "indisponibile".

La vita di una persona non ha un "prezzo", ma solo una sua incommensurabile "dignità".

Una persona non "appartiene" a nessuno, neanche alla persona stessa. Una persona "è" (ma non "ha") la "sua" esistenza.

Ci si domanderà: ma, se la “mia” vita non mi appartiene fino in fondo, allora di chi è? Non ci si lasci trarre in inganno dal possessivo (si dice "mia moglie", "mio marito", "mia figlia", "mio figlio" ecc., ma senza intendere un rapporto proprietario).

Bisogna semplicemente accettare che la vita umana si sottrae a categorie come quelle del possesso, della proprietà ecc.

Tuttavia, quello che una persona effettivamente "ha", in rapporto alla propria vita, è la responsabilità. A ciascuno, responsabile della propria vita, va perciò stesso riconosciuta la facoltà di non accettare cibo, acqua, medicine, terapie.

In tal senso ognuno, in condizioni normali, possiede già la legittima facoltà naturale di determinare la propria morte, se proprio la vuole. Questa naturale facoltà si manifesta secondo modalità passive e indirette, senza bisogno di mettere in atto gesti inconsulti e violenti.

Se vogliamo partire di qui per definire l'eutanasia, cioè se vogliamo partire da una specie di sciopero della fame o della sete, delle medicine o delle terapie, quali potrebbero essere, di grazia, le contro-argomentazioni?

E, inversamente, quale ratio possiamo rappresentarci come sufficiente a oltrepassare, invece, il limite naturale di cui sopra? Come giustificare atti capaci di effettivamente "dare la morte" a qualcuno?

La questione si diparte in due direzioni. Da un lato ci si può domandare se sia lecito "staccare la spina" a un paziente in coma irreversibile, non più in grado d'intendere e di volere – come nel caso di Eluana Englaro. Dall'altro lato ci si pone la domanda se sia lecito "aiutare" un uomo a morire, mentre questi – come nel caso di Piergiorgio Welby – possiede intelletto e volontà, ma non più la capacità motoria di attuare la propria decisione di morire.

Nel primo caso, quello di Eluana, sarebbe fuorviante parlare ancora di una vita "personale".

Eluana cessò di vivere una "sua" vita quando il coma divenne irreversibile, quando cioè la morte cerebrale calò su di lei.

Una volta appurata la morte cerebrale – con tutta l'accuratezza e la serietà di cui le conoscenze medico-scientifiche ci rendono capaci nell’appurare un caso così doloroso – noi riteniamo lecito cessare ogni accanimento terapeutico, esattamente come infine è avvenuto, nonostante l'inqualificabile gazzarra neo-clericale montata ad arte, e per scopi inconfessabili, da gente a cui di Eluana non importava nulla.

In senso proprio si può parlare di "eutanasia" solo nel caso cioè in cui sia ancora realmente in gioco la vita di una persona: che si definisce come soggetto capace, quanto meno sul piano potenziale, d'intendere e di volere.

Il problema si pone quando una "persona" abbia coscientemente assunto la decisione di morire, senza poter realizzare questa decisione.

Attenzione, però, la decisione di morire è assunta in questo secondo caso sulla base di quella che, alla fine dei conti, non possiamo che definire un'opinione: l’opinione, segnatamente, secondo cui la propria vita non è degna di essere ulteriormente vissuta.

Dobbiamo essere consapevoli di questo aspetto della questione, perché nessuna opinione, per quanto sofferta, può apparirci sufficiente a legittimare un omicidio.

"Non uccidere", dice la Legge.

Non significa che nessuno può rivendicare il "diritto" di uccidere nessuno, nemmeno se stesso?

Certo, nella vita e nella storia umana, possono darsi infinite situazioni nelle quali il "Non uccidere", che vale in linea di diritto, entra poi, e talvolta ferocemente, in contraddizione con se stesso (ad esempio nel caso della legittima difesa).

Ma non possiamo certo esaminare qui tutte le fattispecie; qui ci basta focalizzare un principio generale chiaro e comprensibile a tutti. E poiché il nostro punto di partenza è la dignità personale, non possiamo che mantenere fermo il criterio secondo cui nessun'opinione potrà mai bastare a togliere la vita a qualcuno, nemmeno nel caso in cui sia questo qualcuno a volerlo, in conseguenza di atroci dolori.

Per sedare i dolori ci sono gli antidolorifici.

Ora, se nessuno (e quindi neanche la persona stessa) pare avere diritto di causare direttamente la morte di un essere umano sulla base della propria opinione, non si vedono argomenti plausibili a favore dell'eutanasia "attiva".

Restano invece buone ragioni a favore dell'eutanasia "passiva", cioè a favore dell'astensione da ogni terapia (eccettuata quella antidolorifica) una volta che il paziente abbia confermato una sua decisione in questo senso.

In conclusione, l'impiego di agenti letali, anche conforme alla volontà del paziente, ci appare inaccettabile: la vita personale non è una grandezza disponibile.

Ma, del pari, la somministrazione forzata di terapie sulla base di una qualsiasi imposizione autoritativa (sanitaria, statuale, morale o religiosa) la quale si opponga alla volontà del paziente sarebbe anch'essa del tutto inaccettabile: nemmeno la coscienza individuale è una grandezza disponibile. (12.11.2010)


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Tre o quattro modesti auspici per il 150° anno

Editoriale di Andrea Ermano – sabato 22 gennaio 2011

Durante tanti anni di follie liberiste il sistema Italia ha complessivamente battuto la fiacca. Il Paese non versa in buone condizioni. È nell’interesse di tutti che la sinistra riesca proporre un'alternativa per le nuove generazioni.


Il tassinaro zurighese è un giovanotto assai corpulento, con un vistoso auricolare color antracite che penso gli serva a telefonare mentre guida. Butta un occhio sulle insegne rosso-bandiera del ristorante dal quale stiamo uscendo; resta attonito per un istante; poi sobbalza ed esclama in dialetto alemannisch: “Ma questo è il Cooperativo?! Dunque, il Coopi esiste ancora?!”.

In effetti, quella che, senza sgommare, ci siamo appena lasciati alle spalle, scivolando via nel silenzio della notte invernale dopo alcune ore di accese discussioni, quella era proprio la nuova sede dello storico ritrovo antifascista, giunto al suo quinto trasloco in cent’anni e passa di onorato servizio.

Sono le due di notte.

“Ma è vero che ci ha mangiato anche Mussolini quand’era ancora socialista?”, domanda il ragazzo.

Gli cito la memorialistica sull’argomento secondo la quale Mussolini venne a Zurigo nel 1913 per il discorso del Primo Maggio; parlò al Velodromo; poi pranzò a casa di compagni. Il Cooperativo rimase chiuso fino a sera per la Festa dei lavoratori.

Il giovane zurighese ne prende atto pensoso: “Mia madre dice di Mussolini che era meno cattivo della sua. . . della sua. . .”.

E si perde un po’ a cercare la parola. Azzardo: “Della sua nomea?”.

“Genau, genau!”, esclama lui. “Era meno cattivo della sua nomea. Certo, poi, il patto con Hitler. . .”, aggiunge a mezza bocca, non senza segnalare qualche implicita riserva sul giudizio della mamma, e non senza tradire un interesse storico che mi sorprende. Quando scendiamo, c’informa: “Ma Berlusconi, come uomo, dice mia madre, è peggio di Mussolini”.

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Ora, sembrerà uno scherzo, ma l’opinione della mamma del tassinaro zurighese riferitaci da lui medesimo riflette lo stato d’animo di tantissime donne, ben oltre i confini del nostro Paese, in quartieri e continenti anche distantissimi tra loro.

L’enorme frana d’immagine cui alludiamo iniziò a Casoria, nel Napoletano – ricordate? – con la festa per il diciottesimo compleanno di una ragazza, Noemi Letizia, fin lì totalmente sconosciuta ai più. Fu allora che Veronica Lario, in una celebre intervista, annunciò l’intenzione di divorziare dal marito-premier, dato che lui trovava il tempo per “rilassarsi” con le minorenni, ma non quello per presenziare al compleanno dei figli, disse.

Da allora, nell’inconscio collettivo del villaggio globale, l’immagine del nostro Presidente del Consiglio sta praticamente “a zero”. Certo, in Italia lo strapotere politico, mediatico, finanziario e persino ecclesiastico ha sopito non poco i sentimenti della gente.

E però, appena passi i confini del Paese, tutti quelli che incontri, ma proprio tutti, ti domandano: “Perché vi tenete uno come Berlusconi?”.

Il discredito internazionale combinato con l’ira che lievita nell’animo delle donne, e non solo delle donne, ha ormai distillato un’osmosi inesorabile che lentamente corrode ogni microfibra del gradimento berlusconiano. Chi mai potrebbe arrestare questo processo, così vasto e così profondo?

Dunque, stiamo entrando in una nuova fase.

Sì perché, se due anni fa il nostro problema politico consisteva nell’irraggiungibile capitale di consenso intorno all’Uomo di Arcore, abilissimo nelle campagne di autopromozione elettorale, ma incapace di avviare le riforme di cui il Paese ha urgentemente bisogno, ebbene, oggi il berlusconismo è censurato nei sondaggi dal 70% degli intervistati. E persino il Vaticano pensa a uno "sganciamento soft", certo non prima d'essere passato all'incasso: «La prospettiva più accreditata Oltretevere è un altro anno di Berlusconi a Palazzo Chigi (con l’approvazione del ddl Calabrò anti-eutanasia e di altri provvedimenti a difesa di vita, famiglia, libera istruzione) poi, scongiurando il ricorso alle urne, il passaggio di mano ad altro "esponente del centrodestra" in primis Giulio Tremonti», riferisce oggi il vaticanista della Stampa, Giacomo Galeazzi.

Auguriamoci, nel centocinquantesimo anno di unità nazionale, che l’Italia abbia il cuore di mettere guinzaglio e museruola alle bestie fameliche, evitando i soliti riti di fine regime, ché stavolta potrebbero sortire effetti esiziali per l’intero sistema.

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Urgono le riforme, che per ora nessuno farà, né oggi né domani. E allora, per il dopodomani, proviamo a buttar giù due o tre idee semplici, suscettibili ovviamente di precisazioni e sviluppi.

Saltiamo a piè pari le varie questioni istituzionali, per le quali occorre un’assemblea costituente. Qui ci limitiamo in tutta brevità al merito, ai contenuti.

Prioritario, massimamente prioritario, sarebbe ricucire la solidarietà generazionale, cioè fare qualcosa per i giovani. Quindi, ad esempio, bisognerebbe abbattere il debito pubblico, aggredire precarietà e disoccupazione, realizzare opere di risanamento sociale e infrastrutturale.

Il debito pubblico è un furto perpetrato dalle vecchie generazioni ai danni delle giovani. Giusto sarebbe allora se i vecchi facessero qualcosa. Perciò Giuliano Amato ha recentemente proposto di prelevare dai grandi patrimoni del terzo più ricco della popolazione otto-dieci mila euro pro capite annui. In circa un lustro porterebbero il disavanzo al 60-80% del PIL. Sarebbe una buona azione.

Contro precarietà e disoccupazione i socialisti propongono da tempo l’introduzione di un reddito minimo di cittadinanza (ricordo che se ne parlava già una vita fa nei nostri convegni di studio internazionali). Tanto per cominciare lo si potrebbe gradualmente applicare a un primo scalone d’età tra i 20 e i 30 anni.

Contro il degrado sociale e infrastrutturale, sarebbe opportuno introdurre un obbligo di leva civile per tutte le ragazze e per tutti i ragazzi. Grazie a questa nuova coscrizione lo Stato potrebbe affrontare compiti d’intervento nelle principali emergenze sociali, ambientali e infrastrutturali.

Non mancano esempi di cose da fare, dagli argini dei fiumi ai terrazzamenti delle montagne in dissesto idrogeologico, dalla manutenzione delle strade alle misure antisismiche o di ristrutturazione eco-compatibile, dall’accudimento di anziani e disabili ai programmi di accoglienza e riqualificazione professionale, dalle opere di conservazione del patrimonio culturale alla sua valorizzazione, la lista sarebbe qui troppo lunga.

Durante questi venticinque anni di follie liberiste, il sistema Italia ha complessivamente battuto la fiacca. Il Paese non versa in buone condizioni.

È nell’interesse di tutti costruire una prospettiva di speranza per le nuove generazioni.


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Amato a Zurigo

Giuliano Amato, presidente del Comitato dei garanti per le celebrazioni del 150°, ha tenuto all'Università di Zurigo una lectio magistralis su L'Italia tra Unione Europea e nuovo federalismo: “Auspicherei che alla fine di quest’anno appaia evidente che anche l’Italia sta insieme per un unico motivo: perché gli italiani vogliono stare insieme”.

Nota di Andrea Ermano – sabato 26 febbraio 2011


"Dottor sottile", "Eta Beta" e financo "Dracula": non si contano i nomi e i nomignoli appioppati a Giuliano Amato nel corso della sua lunga marcia attraverso le istituzioni.

Lui stesso chiede d'essere semplicemente chiamato “professore”, perché ora guida l'Istituto Treccani e il Comitato dei garanti per le celebrazioni del 150°, succedendo in questa prestigiosa carica al presidente emerito della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi.

Insieme al presidente Napolitano, Amato rappresenta per la lunghezza dell'impegno pubblico una sorta di risposta laico-progressista all'inossidabilità del divo Andreotti, con il quale il Dottor Sottile condivide la gracilità e l'acume, ma dal quale lo separa una diversa complessione intellettuale e morale.

A questa diversità, di vero accademico e di statista italiano incensurato, l'ex premier socialista deve in sostanza il suo prestigio internazionale, che si traduce in frequenti inviti nelle università di mezzo mondo.

Di recente ha parlato all’Università di Zurigo, dove il decano della Philosophische Fakultaet, Bernd Roeck, storico bavarese trapiantato a Zurigo, si è profuso in elogi per l’ospite illustre e in espressioni di simpatia nei riguardi dell’Italia, per auspicare infine un “nuovo Risogimento dopo Berlusconi”, giacché il popolo italiano “sopravvissuto a innumerevoli catastrofi, guerre, occupazioni, terremoti, alluvioni e disastri", ha detto Roeck "riuscirà a sopravvivere anche a quest’epoca strana che chiamano del bunga-bunga”.

L’illustre ospite ha incassato le bordate di sarcasmo con una smorfia quasi impercettibile di sofferenza. Forse, in altri tempi, altri decani, si sarebbero espressi con maggiore sobrietà, ma ce lo meritiamo.

Il Centocinquantesimo dell’Unità d'Italia -- a giudizio dell’ex premier -- deve aiutarci a condurre in porto il progetto anti-centralista insito nella Costituzione repubblicana.

L’Italia del Centocinquantesimo deve coniugare Unità e Federalismo, anzitutto a favore del Mezzogiorno, che non ha alle spalle una diffusa esperienza comunale, essendo rimasto soggetto per molti secoli a forme centralistiche di governo: "Credo al federalismo", ha detto Amato, "anche se Mazzini e Cavour hanno avuto ragione a non volerlo, perché non avrebbero potuto realizzarlo. Ma se l'avessero potuto, per il nostro Paese sarebbe stato meglio".

Nell'Italia delle cento città i Comuni hanno condotto alla formazione di una società civile forte e fortemente coinvolta nel governo: un lungo training di responsabilizzazione politica che si è realizzato soprattutto nel Centro-Nord e che mancava a Sud, solo in parte attivatosi poi con l'arrivo del "decentramento" e la nascita delle regioni.

Ma il gap tra Nord e Sud può e deve essere superato, proprio promuovendo il Federalismo.

Dopodiché – dalla Spagna alla Germania, dall’Italia al Portogallo, dal Belgio alla Gran Bretagna alla stessa Francia – assistiamo in Europa al tramonto del centralismo ottocentesco, ma questo processo avviene sotto il segno di una doppiezza. Perché il “federalismo” può essere un modo per produrre tanto l'unione quanto la divisione. Anche in Italia, dove il trend federale può preludere a forme di coesione più stabile, ma anche a una progressiva secessione, ha ammesso il presidente del Comitato per il 150°, non negando il sussistere in questo senso di "due onde”, nella convinzione tuttavia che “una grande onda può assorbire un’onda più piccola”.

Insomma, l’Italia deve raccogliere la sfida federalista, ma può anche permetterselo, in quanto – questa la tesi decisiva di Amato – gli italiani vogliono stare insieme.

“Ecco” – ha concluso il professore, con trasparente allusione alla categoria elvetica di Willensnation – “io auspicherei che alla fine di quest’anno di celebrazioni appaia evidente che anche l’Italia sta insieme per un unico motivo: perché gli italiani vogliono stare insieme”.

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Gli applausi trionfali e la grande simpatia che Amato ha saputo suscitare in una platea mai facile com’è quella zurighese hanno segnato indubbiamente un punto d’immagine a favore del nostro Paese. Non è poco.

Però, non si è ben compreso quale sia oggi l'altro lato della strategia federalista italiana, quello rivolto cioè alla prospettiva europea.

Eppure, mai come in queste settimane l'antieuropeismo della destra italiana mostra i suoi limiti, non meno, per altro, che nel centro-sinistra, in un centro-sinistra non ancora del tutto immune da certo antisocialismo.

Un esempio di ciò si è avuto il 19 febbraio scorso, al convegno sulla scissione di Livorno. L’intellettuale democrat Giuseppe Vacca vi si è recato per evocare minacciose profezie (“La socialdemocrazia tedesca non sarà più un partito che può pensare da solo di arrivare al 40%! Chiaro!?”). Mentre Tamburrano, Macaluso, Turci e Besostri ascoltavano visibilmente disidratati, le agenzie tedesche iniziavano a battere anticipazioni sulla maggioranza assoluta della SPD nella città-stato di Amburgo. Tutti i sondaggi danno su scala nazionale i tre partiti di sinistra (SPD, Verdi, Linke) stabilmente intorno al 52%, contro una coalizione di centro-destra (CDU-CSU, FDP) stabilmente attestata sul 42%.(*)

Buona notizia, questa di un ritorno in forze della sinistra nella Germania della signora Merkel, dove c’è chi ritiene di poter affrontare le sfide globali in forza propria. (26.2.11)


(*) Cf. http://www.spiegel.de/politik/deutschland/0,1518,623633,00.html.


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Dagherrotipo contabile

Editoriale di Andrea Ermano - Sabato 29 gennaio 2011

Quelli che dalla Nazione hanno ricevuto molto, troppo, negli anni delle vacche grasse, non dovrebbero ora restituire qualcosa, negli anni delle vacche magre?


L’enorme debito pubblico italiano è il dagherrotipo contabile dei lussi che generazioni più anziane si sono concesse scommettendo sulla Crescita (infinita) dell’economia nazionale.

Senonché, verso la fine dei vituperati anni ottanta, la Crescita si è prima raffreddata, poi arrestata e, infine, con il sopraggiungere della crisi finanziaria, invertita in Decrescita.

Il debito fin qui contratto per i lussi di noi vecchi, se lo dovranno caricare sulle spalle le generazioni a venire. In altre parole: stiamo commettendo un furto ai danni dei giovani.

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Riflettendo a quanto sopra, l’ex premier Giuliano Amato ha recentemente proposto di introdurre un prelievo fiscale straordinario da operare sui grandi patrimoni, appartenenti al terzo più abbiente della nazione. Beninteso, non stiamo parlando di redditi, ma soltanto di ricchezze accumulate, e non stiamo parlando di tutti gli italiani, ma solo del terzo più ricco.

Il terzo più ricco degli italiani è molto ricco. Grazie a un contributo, tutto sommato modesto, diciamo diecimila euro pro capite annui, i più fortunati potrebbero, in cinque anni, aiutare l’Italia a ridurre il disavanzo al 60-80% del PIL.

L'autorevole "Proposta Amato" segue analoghe considerazioni di Carlo De Benedetti ed è stata variamente ripresa nei giorni scorsi da numerosi commentatori ed esponenti politici, e tra essi anche da Romano Prodi.

Che i più ricchi facciano qualcosa per risollevare il Paese dalla prostrazione in cui versa è non solo giusto, ma anche intelligente, poiché non c’è pace senza un minimo di giustizia.

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Se la proposta di un’imposizione patrimoniale limitata alle grandi ricchezze, risponde a una semplice nozione di buon senso, il premier Silvio Berlusconi ha dichiarato ieri in un suo videomessaggio che mai e poi mai il governo da lui presieduto varerà una patrimoniale.

Oibò. Tanto peggio per il suo governo, potremmo dire parafrasando Giorgio Guglielmo Federico Hegel.

E che saranno poi diecimila euro all’anno?!

Si apprende dai giornali di tycoon brianzoli che spendono cifre ben superiori per le loro serate di relax, karaoke, home moovie etc.

Ironia a parte, l’indisponibilità del premier a prendere in esame un’imposizione patrimoniale straordinaria costituisce almeno un dato politico.

Non è concessione da poco in questa suburra mediatico-giudiziaria.

E non di meno, si tratta di un errore forse irreparabile. Forse non ci si rende conto del passaggio d’epoca e quindi nemmeno del dissenso che il popolo di sinistra può ben cristallizzare proprio intorno alla semplice "questione morale" che così riassumiamo: Quelli che dalla Nazione hanno ricevuto molto, troppo, negli anni delle vacche grasse, non dovrebbero ora restituire qualcosa, negli anni delle vacche magre?

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A proposito di videomessaggi, il compagno Rino Formica, in un'intervista a La Stampa, ne ha tratto un'impressione di "crisi di panico". In effetti, chi non proverebbe, al posto dell’Uomo di Arcore, un desiderio di fuga? Certo, lui giura di "non essere mai fuggito" ed esclude di volerlo fare ora.

Belle parole, ma il tram arranca sferragliando verso il capolinea.

Dunque, ecco un bel problema: "Dove mettere Berlusconi?".

A suo tempo, il CLN offrì la via d’uscita. Pietro Nenni fu moderato e giusto nell’epurazione. Palmiro Togliatti firmò persino un'amnistia. "Ora il sistema dovrebbe chiudere la stagione con una fuoriuscita dolce", sostiene Formica: "Mediaset non si tocca, i beni non si toccano e lui se ne va ad Antigua".



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A guadagnarse onestamente el pan

Editoriale di Andrea Ermano - Sabato 12 febbraio 2011


Paese tra i più ricchi e nobili della terra, tremila anni di Storia e centocinquanta di ritrovata unità politica, l’Italia vive attualmente un tempo in cui forse le servirebbe chiedersi non che cosa possa fare la Storia per lei, ma che cosa debba piuttosto fare lei per la Storia.

Anzitutto dovrebbe rimemorare ciò che lei è nella sua specifica grandezza, ciò a cui deve (dopo tutto, nonostante tutto) il suo posto d’onore nel consesso delle nazioni. Una grande potenza mondiale lo è stata due volte, sotto il segno dell’humanitas nell’antichità e dell’umanesimo durante il rinascimento. Dunque, se dovesse riassumere la sua grandezza civile in una parola, una sola, questa sarebbe: umanità.

Orbene, la maggioranza relativa dell’umanità vive tra India e Cina: oltre 2,5 miliardi di persone, tra le quali non si riscontra tasso di crescita del PIL che sia inferiore all’8% annuo. Tra India e Cina lavorano sessanta milioni d’ingegneri. Un intero sciame di culture ultramillenarie ha stabilmente agganciato la “scienza-tecnica” occidentale.

Otto centesimi di crescita per due miliardi e mezzo di abitanti sono un po’ come dire che ogni anno duecento milioni di nuovi produttori-consumatori entrano a far parte del mercato mondiale. Gli effetti che, in termini di redistribuzione dei poteri e delle risorse, produrrà un così grande mutamento economico trascendono ogni previsione.

E però, la produttività umana è divenuta ormai un fenomeno talmente gigantesco da interessare persino l’atmosfera terrestre. Su ciò, nella comunità scientifica internazionale, prevale un orientamento che si può riassumere così: in meno di cento mesi dovremmo incominciare, come genere umano, a delineare una governance ambientale globale sulla cui base procedere poi alla progressiva riduzione delle emissioni nocive, che andrebbero praticamente azzerate nel giro di una generazione o poco più.

Se le parole hanno un senso, quella che si prospetta all’orizzonte è una torsione assiale della Storia. Siamo ormai confrontati, come genere umano, con una sfida cosmopolitica straordinaria, anche in termini di corsa contro il tempo, perché il surriscaldamento è già in atto, come afferma tra gli altri Al Gore, già vicepresidente USA e premio Nobel per la Pace nel 2007.

Si eccepirà che le società umane sono spesso entrate in tensione con il proprio habitat anche nel passato. Il benessere induce crescita demografica, che a sua volta reclama spazio vitale, pena la carestia. L’utilizzo intensivo dei terreni agricoli è causa d’infertilità, cioè alla lunga di carestie. Nel passato, per evitare crisi d’ordine, le nazioni ricorrevano di norma alla guerra, “prosecuzione della politica con altri mezzi”. Ma oggi? Non ha perso la guerra oggi, se mai l’ha posseduto, ogni ultimo residuo di razionalità politica? I cento mesi scarsi che restano a nostra disposizione per costruire insieme una governance globale non ci servono tutti per fare le cose a noi necessarie come genere umano?

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Ecco, è muovendo da siffatti pensieri che vorremmo poter riflettere sul centocinquantesimo dell’unità nazionale, magari arzigogolando un po’ anche sulla dimensione europea e mediterranea del nostro Essere-nel-mondo.

Invece, ritroviamo la Patria un po’ così, “con le mutande in man, a guadagnarse onestamente el pan”, come scandiva una canzone satirico-popolare veneziana, oggi molto in voga a quanto pare tra i calligrafi di Ferrara. Dopodiché sarà sicuramente causa del “nuovo che avanza” con il suo seguito di cortocircuiti mediatico-giudiziari, ma anche di leggi ad personam, conflitti d’interesse, allegri condoni, cricche, vasti programmi di corruzione ecc.

Ci vuol pazienza. Tanta pazienza. Lo Zio s'è dimesso ieri, e speriamo bene. Prima o poi, anche il Benefattore della Nipote darà tregua. Prima o poi.

In attesa di tanto, vorremmo tener fermo ad alcuni quesiti preparatori di un dibattito politico a venire, posto che, segnala Susanna Camusso, non basterà aver tagliato di dieci minuti la pausa degli operai per affrontare le sfide sul tappeto della globalizzazione.

E allora, in primo luogo, vorremmo rispettosamente chiedere a chi di dovere di esplicarci meglio quali possibilità abbia l’avventurosa parola d’ordine “crescita” nella situazione data.

In secondo luogo, vogliamo domandarci perché mai (niente contro il libero mercato) in questi ultimi decenni di “crescita” il suddetto mercato non ha percepito come "domanda" il bisogno evidente di contenere il dissesto idrogeologico? Esempio tra i tanti e domanda retorica, in realtà, in quanto dalla lotta al dissesto non scaturisce alcuna aspettativa di profitto, e men che meno a breve scadenza, sicché il fenomeno neppure appare all’orizzonte degli eventi di cui si circonfonde la cosiddetta razionalità di mercato.

Infine, che si fa, se per un verso resta molto, moltissimo lavoro arretrato e assolutamente da recuperare (lavoro che legittimamente non interessa al libero mercato), mentre dall’altro lato il 25% dei giovani vive in disoccupazione? Che si fa? Si riformula l’art. 41 della Costituzione? Si supera la Costituzione tutta quanta?

Ma, andiamo, avidi amici dell’establishment nazionale, qui vale per analogia quel che una volta un celebre pensatore sentenziò in merito alla filosofia: "Voi non potrete superarla prima d’averla realizzata".




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