Editoriale del direttore

Da L'Avvenire dei lavoratori - Periodico socialista dal 1899.



Indice

LA PAROLA "MOBILITARSI"

Editoriale di Andrea Ermano - lunedì 20 settembre 2010


Il Vaticano e la Confindustria giocano a frammentare una rappresentanza politica unitaria della laicità e del mondo del lavoro.


Giunti al punto in cui siamo, l’ultima cosa di cui si sentiva l’esigenza era il deflagrare delle contraddizioni interne al PD. Contraddizioni che vengono da lontano. Grosse, crasse, evidenti. Ma meglio sarebbe se non esplodessero adesso.

E invece è proprio ciò che si è temuto con la ridiscesa in campo di Veltroni. Che ora nega di avere detto al suo partito che ci vuole “un papa straniero”, con buona pace delle primarie e degli statuti secondo cui il leader è Bersani in quanto segretario nazionale emerso da un vasta consultazione.

Veltroni ha raccolto stavolta una ben scarsa degnazione. Gli hanno voltato le spalle persino la “sua” direttrice dell’Unità, Concita de Gregorio, e il vecchio mentore, Reichlin, che – “sorpreso, preoccupato, allibito” – ha stigmatizzato “la vanità e l'inconcludenza… delle polemiche che lacerano la sinistra”.

Autorevoli osservatori vedono in questa frattura un sintomo terminale della crisi che attanaglia il maggior partito d’opposizione. Ognun capisce che, se il centro-sinistra non riprendesse quota ora che l’astro di Berlusconi tramonta, il PD potrebbe sfarinarsi, completamente. La destra coglierebbe un’insperata vittoria nella prospettiva (probabile sebbene non immediata) di elezioni anticipate.

Qui si nasconde l’insidia più grande per il popolo di sinistra, popolo molto paziente, che, dopo tre lustri di sueño che avanza, rischia ora di risvegliarsi in uno scenario nel quale le destre potrebbero varcare il Rubicone della maggioranza qualificata puntando dritte sulla Costituzione della Repubblica.

L’insidia non nasce dalla possibilità (già di per sé inquietante) che alla prossima tornata elettorale Berlusconi (o chi per lui) raccolga un’altra volta consensi maggiori a quelli del PD e quindi grazie al “porcellum” si aggiudichi la dotazione del 55% dei seggi “per la governabilità”.

Non è questa l' insidia più grande. Il rischio vero è che, insieme al predetto 55% dei seggi, la destra possa disporre di uno zoccolo aggiuntivo intorno al 10%, nel torbido gioco delle parti che già vediamo delinearsi tra Lega Nord e Partito del Sud. Se la destra, nelle sue ambigue articolazioni, riuscisse ad attestarsi sulla soglia dei due terzi dei seggi parlamentari, le si spalancherebbe la possibilità di stravolgere la Costituzione.

Il gruppo dirigente del PCI-PDS-DS-PD porta su di sé gravi responsabilità per questa situazione politica incresciosa. Che cosa può fare per rimediare? Anzitutto dovrebbe abbandonare la pazza pazza idea di dare sintesi, dentro a un partito unico dell’eccezione italiana, al tradizionalismo cattolico, al mercatismo capitalista e alle aspirazioni del movimento operaio. Una sintesi di questo genere può realizzarsi in una coalizione di partiti secondo il ritmo delle stagioni politiche, degli accordi di governo, delle legislature. Ma non è mai avvenuta dentro a un unico partito, e men che meno in un partito di sinistra.

Fatta ovvia astrazione dalla questione ambientale, che è trasversale, pare che un partito di sinistra possa (e quindi debba) portare a sintesi due interessi: il laborismo sociale e la laicità dello Stato. Il luogo di questa sintesi s’identifica, storicamente, con il socialismo democratico europeo. Nulla vieta ai tradizionalisti cristiani di osteggiare una visione secolarizzata dello stato e impegnarsi solo in una qualche forma di solidarismo o di carità. Così, nessuno impedisce ai fautori della libera impresa di sostenere un sano laicismo opponendosi sull'altro versante a ogni rivendicazione sociale. Ma non è un caso se, intorno a queste costellazioni, si sono formate, nel corso del tempo, tre grandi famiglie politiche europee: la famiglia socialdemocratica, quella popolare e quella liberale.

Il PCI-PDS-DS-PD, che trae la stragrande parte dei propri consensi dal popolo di sinistra nel quale il valori laico-laboristi risultano largamente egemoni, farebbe un gran bel piacere a se stesso qualora si ponesse stabilmente sotto l’egida del socialismo democratico europeo. E bisogna dare atto qui a Bersani di avere seguito un serio percorso di ritorno alla ragione dopo l’avventura veltroniana; avventura disastrosissima quant'altre mai, essendo costata la caduta del governo Prodi, la lacerazione dell’intero tessuto del centro-sinistra italiano, la sconfitta alle elezioni politiche, il ritorno di Berlusconi a Palazzo Chigi, le sconfitte a Roma, in Sardegna ecc., il crollo dei consensi dello stesso PD dal 33% al 23%. Bisogna dare atto a Bersani di avere iniziato a recuperare consensi e credibilità lungo una linea moderatamente socialdemocratica.

Vaticano e Confindustria non apprezzano nulla di tutto questo, ovviamente. E, quindi, si capisce che Bersani non trovi grandi sponde nel sistema dei mass media italiani, che dai “poteri forti” dipendono.

Vaticano e Confindustria pongono, e non certo da oggi, vuoi sulla laicità, vuoi sul laborismo, i loro veti incrociati, che poi non sono neanche dei veri e propri “veti”, ma solo come dire degli “sconsigli”, e però hanno lo stesso effetto di un veto, nel diffuso clima di conformismo e ipocrisia. Non per caso, dopo la scissione di Livorno e l’avvento del fascismo, l’Italia non ha più avuto una grande e solida forza riformista.

Vaticano e Confindustria giocano a frammentare una rappresentanza politica unitaria della laicità e del laborismo, anche perché la famiglia socialdemocratica europea presenta caratteristiche di autonomia incompatibili con i pizzi e i pizzini del Gattopardo nazionale.

I veti incrociati di Vaticano e di Confindustria hanno una loro logica, rispondono alla gelida autoreferenzialità dei “poteri forti” italiani. Ma la gelida logica del potere comporta ormai un serio pericolo per gli equilibri democratici nel Paese.

Se la tenuta del centro-sinistra diventa l’ultima vera garanzia per la tenuta dell’assetto istituzionale nato con la Costituzione del 1947, è giunto allora il momento d’iniziare a mobilitarsi.

Con animo tranquillo, ma fermo, iniziamo a ripetere questa parola: mobilitarsi, mobilitarsi, mobilitarsi. (20.9.2010)


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Editoriale di Andrea Ermano - venerdì 24 settembre 2010


CHE COSA VUOL DIRE LA PAROLA "MOBILITARSI"?

Una lettera sull'editoriale precedente

Caro direttore, rigorosa, la sequenza delle argomentazioni contenute nel tuo editoriale della scorsa settimana (v. qui sotto La parola "mobilitarsi", ndr.) ed efficace il loro culminare in un grido di impegno e di lotta.

Ma, nel mio caso di iscritto al Pd, orfano assoluto di padrini (un bene in sé, ma nel costume corrente di partito moderno votato all'impotenza), dedito ad iniziative sociali, nel disinteresse assoluto del partito, quasi "ultimo mohicano" nel rivendicare le mie credenze socialiste, come devo concepire un tipo coerente e realistico di mobilitazione?

Eppoi dove attingi tante certezze nell'autenticità delle vocazioni socialiste di Bersani che vai citando?

Ho ormai una sperimentazione di queste personalità ex Pci, ex Pds, ex Ds, per giungere alla stessa conclusione di Penelope nei riguardi dei Proci... Spero solo nel destino della Hybris...

Ma per quanto tempo?

Comunque, io lavoro e lavoro molto, anche se concludo il 5% di quello che è il mio impegno.

Pier Luigi Sorti, Roma


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La risposta del direttore

Caro prof. Sorti, ti ringrazio molto della tua lettera, che centra il mio problema, perché la parola "mobilitarsi" riguarda in effetti ciascuno di noi. Personalmente.

Non ti dirò quindi che la risposta alla domanda stia nei sindacati europei che pure hanno proclamato una giornata di agitazione il 29 settembre. Senza contare la "campagna d'autunno" preannunciata da Bersani alla Festa del PD di Torino.

Anche se si tratta d'importanti appuntamenti, che vanno sostenuti, non mi pare questo il problema, che focalizza, invece, la necessità di un coinvolgimento personale e diretto.

Il problema nasce anzitutto dall'esaustione epocale del principio della "rappresentanza politica", che dopo il crollo della prima repubblica è divenuto il luogo di un estremismo trasformista dove il mandato dei cittadini è travolto e nullificato secondo il ben noto meccanismo autodistruttivo che Sloterdijk, nella sua diagnosi della sindrome weimariana, definisce "scatenamento cinico".

Lo scatenamento cinico, in corso nella nostra Weimar al rallentatore, ha travolto, tra le tante cose, la laicità dello Stato, il valore del lavoro, l'istruzione pubblica e la ricerca, l'umanità nei riguardi dell'ospite e dello straniero. E s'è persa ogni traccia, ormai, di quel senso minimo di pudore che è il presupposto, prepolitico, della polis.

Qui, però, appare un "punto di flesso". Qui, per usare la nota metafora, il pendolo della storia si ferma e inverte il senso di marcia.

Ma, se l'astro della rappresentanza tramonta insieme al berlusconismo, quale potrà essere, allora, l'altro "punto di flesso", quello verso cui il pendolo tenderà d’ora in poi? Stiamo per assistere a una nuova irruzione delle masse nell'agone politico?

Se così sarà, si tratterrebbe d'interpretare in senso costruttivo il trend, sventando il compiersi della sindrome weimariana in corso.

Per conseguire tale obiettivo occorre, appunto, "mobilitarsi".

"Mobilitarsi" vuol dire: dare forma pubblica e visibile al bisogno di partecipazione politica che cova sotto la cenere del disaffezionamento di massa e che rischia, altrimenti, di esplodere in modo dirompente.

Dire "mobilitarsi" non investe solo le sorti del berlusconismo (o, specularmente, del veltronismo), ma riflette un'esigenza ben più profonda della democrazia nel nostro Paese, e non solo in esso.

Solo una vasta e attiva partecipazione ci può salvare, perché i problemi politici sul tappeto (superfluo qui elencarli) sono troppo grandi, noti e seri per poterne delegare la soluzione a delle élites. È quindi evidente che, giunti al punto in cui siamo, occorre la manforte della partecipazione popolare. Tutti coloro i quali posseggano ancora il ben dell'intelletto e un poco di buona volontà lo capiscono. Ma restano perplessi, anzi disgustati, dinanzi alle vicende della rappresentanza politica.

Prima o poi, il popolo percepirà la rappresentanza non semplicemente come fonte di ripugnanza, ma vedrà come questa ripugnanza è un astuto strumento di distorsione e “trasformazione” nullificante della volontà popolare. E allora l’ambiguo incantesimo si romperà. E allora s'innescherà un nuovo ciclo di partecipazione.

Quando avverrà tutto ciò?

Non conosco la risposta (penso che questo processo sia già in corso). E comunque la domanda è esatta, se così posso dire. Ognuno dovrebbe chiedersi: "Che cosa posso fare io per...?". "Come devo concepire un tipo coerente e realistico di mobilitazione?". Ecc.

Mobilitarsi presuppone, in via germinale, proprio questo: che un gran numero di persone inizi a porsi domande di questo genere, con molta serietà.

Ma mobilitarsi significa solo porsi delle domande?

No, ovviamente. Significa fornire un contributo proprio al futuro comune: indelegabile, indemandabile, insostituibile, sebbene coordinato in un vasto movimento politico.

Un cordiale saluto (24.9.2010)


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Editoriale di Andrea Ermano - Venerdì 9 luglio 2010


Alcuni ircocervi stanno galoppando

Si accumulano in Italia i segnali di una discontinuità politica lungamente preannunciata. Se essa avverrà per davvero e in che modo, se essa ci condurrà a un governo di responsabilità nazionale o a elezioni anticipate oppure a un temibile vuoto di potere, nessuno lo sa.

Tanto vale occuparsi allora di questioni fondamentali. Perciò questa settimana tratteremo di verità: serenamente, pacatamente.

A modesto parere di chi scrive la nozione di verità si suddivide in quattro concetti. Eccoli.

Se, in primo luogo, affermiamo per esempio: "alcuni capricervi stanno galoppando", questo è vero a due condizioni: che ci siano effettivamente degli animali chiamati "capricervi" e che, laddove esistano, ce ne siano alcuni effettivamente al galoppo.

Invece, dire "due capricervi al galoppo più due capricervi al galoppo fanno in tutto quattro capricervi al galoppo", è vero a prescindere dal fatto che esistano i capricervi. E francamente non interessa nemmeno se i quattro animali, reali o immaginari che siano, stiano effettivamente galoppando. Basta che siano quattro. In questo caso facciamo dipendere la verità da certe regole matematiche.

"È impossibile che in questo preciso istante il mio capricervo stia galoppando e contemporaneamente non stia galoppando". Questo è vero di per sé, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, purché le parole usate abbiano ciascuna un significato definito e univoco.

I tre concetti di verità fin qui esemplificati sono noti anche sotto il nome di: 1) "corrispondenza", 2) "coerenza" e 3) "evidenza". Ne manca uno.

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Ai tre concetti di verità cui abbiamo accennato se ne aggiunge un quarto, che possiamo chiamare "consenso" e che svolge un ruolo molto importante nelle vicende umane, perché il consenso è fondamentale quando ad esempio si attribuisce un nome alle cose e un significato alle parole.

Per esempio, il binomio ideale "Giustizia e Libertà" è stato definito da Benedetto Croce un "capricervo". Il filosofo, che era un dotto professore liberale, potrebbe avere utilizzato con i suoi assistenti anche l'espressione latina "hircocervus", che a sua volta proviene dal greco "tragelaphos", termine coniato da Aristotele all'inizio del suo scritto sull'arte della traduzione.

Italiano, greco o latino che sia, il senso di queste espressioni (affini in tutte le lingue in cui è stato tradotto lo scritto aristotelico cui accennavamo) implica sempre lo stesso concetto: una specie di animale tra il capro e il cervo.

Aristotele aveva coniato questa parola, per esemplificare un'espressione dotata di un senso trasparente: chiunque nell'Atene dell'epoca capiva che "tragelaphos" allude a una specie di animale tra il capro e il cervo. Ma nessuno sapeva dire se questa espressione indicasse un animale che esiste realmente.

Ma, insomma, il capricervo, ircocervo o tragelafo che dir si voglia esiste o non esiste?

Per rispondere bene a questa importantissima domanda, bisogna aggiungere che Aristotele dubitava dell'esistenza dei tragelafi tanto quanto Benedetto Croce denegava la possibilità stessa di un socialismo democratico europeo fondato sul binomio ideale della Giustizia e della Libertà.

Per il liberale Croce non si poteva nemmeno lontanamente concepire una comparazione della Giustizia con Libertà. Eppure alcuni giovani, e non i peggiori, compararono. Eccome se compararono. Così, per l'accademico Aristotele i tragelafi esistevano solo nella fantasia africana di certi tessitori di tappeti, sempreché gli Africani tessessero.

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Oggi siamo portati a ritenere che gli Africani tessessero. E che tessessero il vero. Dato che l'Africa subsahariana pullula di diverse specie bovine simili ad antilopi, cioè capri dotati di corporatura simile a quella dei cervi. E infatti gli zoologi hanno battezzato "Tragelaphus" un sottogenere di antilopi.

Tutto questo implica due importanti conseguenze:

1) Che il tempo è galantuomo dato che alla fine si è ammessa l'esistenza dei capricervi e che di conseguenza il celeberrimo intellettuale post-crociano Massimo D'Alema è diventato il presidente della Fondazione Europea di Sudi Progressisti, primo esemplare della specie Hircocervus Democraticus Europaeus avvistato anche in Italia.

Al neo-presidente D'Alema i nostri auguri più fervidi e sinceri di buon lavoro.

2) La seconda implicazione è una cosa che dobbiamo esserci dimenticata. Ma, tant'è, il tempo causa un affievolimento della memoria. Attenua ogni ogni vulnus dell'anima: l'umiliazione degli sconfitti, l'arroganza dei vincitori, l'inespugnabilità di un enigma.

Buona estate a tutte le nostre lettrici e a tutti i nostri lettori. (9.7.2010)


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Editoriale di Andrea Ermano - venerdì 3 settembre 2010


Evoluzione più benigna ?

L'Italia non solo avrebbe necessità di superare il “porcellum”, ma anche l’esigenza che tale evoluzione abbia luogo in un quadro di larghissime intese. Ecco perché.


La traiettoria assunta dal conflitto d’interessi nel corso delle note violenze mediatiche estive guidate dal presidente del Consiglio contro il presidente della Camera evoca per certi versi quella celebre Locomotiva di Guccini, “lanciata a bomba” contro la terza carica dello Stato. Con tragicomica confusione dei ruoli, però, dato che qui, nelle vesti dell’attentatore suicida, entra in scena non un macchinista proletario, ma uno zar miliardario.

A evitare la deflagrazione istituzionale finale è soccorso a mezza estate il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, garante dei residui equilibri tra poteri dello Stato. E contro di lui, in nome di una legge elettorale nota nella letteratura politologica sotto il nome di “porcellum”, il premier ha rivendicato la facoltà di porre fine alla legislatura quando il suo esecutivo finisse sfiduciato.

Ora, il “porcellum” prevede soltanto che le coalizioni candidatesi al governo del Paese depositino un programma e il nome di un leader. Nello spazio logico del Cavaliere questo significa però che, qualora egli perdesse la maggioranza in Parlamento, ciò comporterebbe il divieto alle forze politiche di formare una nuova maggioranza e, soprattutto, l’obbligo per Napolitano di chiudere la legislatura indicendo elezioni anticipate.

Che ne è del presidente della Repubblica e dei suoi poteri (tra cui quello d'indire o meno nuove elezioni)?

Nello spazio logico del Cavaliere, le prerogative del Capo dello Stato vengono liquidate alla stregua di meri “formalismi costituzionali”. Nello spazio logico del Cavaliere, il “porcellum” – che è una legge ordinaria – vale quanto e più di una riforma costituzionale poiché pretende di revocare una delle principali attribuzioni del Capo dello Stato. Eppure su questo argomento il “porcellum” stesso recita così: “Restano ferme le prerogative spettanti al Presidente della Repubblica” (Art. 3).

Tenendo fermo quest'ultimo punto, si capisce che è la coalizione vincolata al suo leader e, viceversa, il leader vincolato alla sua coalizione, ma il presidente della Repubblica resta il presidente della Repubblica.

Se, per esempio, i finiani uscissero dalla maggioranza e mettessero in minoranza Berlusconi, la coalizione in quanto tale non esisterebbe più. E il leader, vincolato a essa, avrebbe il dovere di farsi da parte. Perché il vincolo del “porcellum” pertiene al leader e alla sua coalizione. Mentre non impegna, né può in nessun caso impegnare, il Capo dello Stato. E non impegna nemmeno le due Camere in quanto ogni parlamentare, per la Costituzione, rappresenta la nazione “senza vincolo di mandato”.

Per mutare le prerogative del Presidente della Repubblica (o quelle delle due Camere o dei parlamentari in esse) occorre modificare la Costituzione. Per farlo, senza dover sottoporre poi il nuovo testo a verifica referendaria, non bastano le maggioranze semplici e quindi non bastano né i numeri del centro-destra attualmente al governo né quelli del centro-destra al governo nel 2005, anno in cui fu approvato il “porcellum”. Lo stesso discorso vale ovviamente anche per le varie maggioranze di centro-sinistra guidate da Prodi, D’Alema, Amato e poi ancora da Prodi. E identicamente varrebbe per Bersani se fosse lui a portare il nuovo Ulivo al governo.

Per mutare le prerogative del Presidente della Repubblica (o delle due Camere o dei parlamentari in esse) l’Art. 138 della Legge fondamentale esige una maggioranza qualificata dei due terzi.

Il “porcellum” – ben lungi dal possedere questo grado di legittimazione – è solo una legge ordinaria, approvata da una maggioranza semplice che a sua volta è espressione di una coalizione uscita vincente dalle urne dopo avere semplicemente raccolto più voti di altre liste o coalizioni: una “maggioranza relativa”. Ma una “maggioranza relativa” che, in forza di meccanismi elettorali, sia stata trasformata in “maggioranza assoluta” nel Parlamento, resta non di meno minoranza nel Paese. Ha sì titolo per governare, ma certo non per cambiare la forma e i principi dello Stato.

Da quanto detto consegue, a fil di logica, non solo la necessità di superare il “porcellum”, che come ebbe a dire il suo stesso autore è una vera “porcata”, ma anche l’esigenza che tale evoluzione abbia luogo in un quadro di larghissime intese capaci di suscitare il consenso dei due terzi del Parlamento intorno a una nuova legge elettorale.

È questa la strada che l’Italia imboccherà, come spera Napolitano, “verso un’evoluzione più benigna” della vicenda politica? Sembra quasi impossibile. Eppure, un governo di larghissime intese, impegnato su una legge elettorale equa e adeguatamente condivisa, rappresenterebbe un bel passo avanti nel cammino delle riforme necessarie al Paese. (3.9.2010)


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Editoriale di Andrea Ermano - venerdì 26 novembre 2010


Punire Welby, vivo o morto

È di queste settimane la notizia secondo cui Papa Benedetto XVI ha costituito un nuovo dipartimento vaticano finalizzato alla rievangelizzazione dell’Europa. A capo c’è, fresco di nomina, monsignor Fisichella, già presidente della Pontificia Accademia della Vita.

Un primo saggio di rievangelizzazione a favore della “Vita” ci è stato fornito dal quotidiano Avvenire sul caso di Mina Welby, rea di avere ricordato suo marito, Piergiorgio, con Roberto Saviano e Fabio Fazio alla trasmissione televisiva “Vieni via con me”.

Chi era Piergiorgio Welby? Un uomo completamente paralizzato dalla distrofia muscolare progressiva, costretto a vivere con una perforazione della trachea dove gli era fatta passare l’intubazione di collegamento al respiratore automatico, giorno e notte, giorno dopo giorno, anno dopo anno.

Mai e poi mai Piergiorgio aveva desiderato ritrovarsi in questo stato. E, in base alla Costituzione secondo cui “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario” (Art. 32), chiedeva che gli si “staccasse la spina”. Ci furono aspre polemiche, da parte delle gerarchie cattoliche: "Diabolico inganno!", tuonò il Consiglio episcopale permanente.

Il malato fece recapitare una lettera al Presidente della Repubblica Napolitano e, dopo molte peripezie, il 20 dicembre del 2006, oltre nove anni di accanimento terapeutico alle spalle, prese congedo dai suoi parenti e amici. Chiese da ultimo di ascoltare una canzone di Bob Dylan. Poi fu sottoposto a narcosi, secondo la sua volontà. Il respiratore venne staccato. E Piergiorgio Welby, dopo alcuni minuti, si spense.

Non si spensero, però, le polemiche vaticane. Al punto tale che il Vicariato di Roma vietò alla famiglia le esequie in chiesa. E ora bisogna rincarare la dose, visto che Mina ha raccontato la sua storia in tv. Il giornale dei vescovi italiani chiede che, nella stessa trasmissione, sia data la parola anche alla “cultura della vita”, dopo che la si era concessa alla “cultura della morte”.

Tutti gli osservatori si stupiscono della presenza straripante della Chiesa nella tivù italiana, ma in effetti è possibile che ce ne sia ancora troppo poca, date le condizioni in cui versa il Paese non ostante cotanto magistero morale.

Evidentemente, c’è ancora chi ritiene di dover bucare l’esofago alle persone distrofiche, anche se dissenzienti, onde tenerle attaccate a dei respiratori artificiali per anni.

Domanda: E se uno dissente in nome della sua libertà personale?

Risposta: Niente funerale.

Ma, scusate, seppellire i morti non era la "settima opera di misericordia corporale"?

Certo, ma ormai questo è lo stato della nazione. Come nella famosa scena nel Dottor Stranamore di Kubrik, la scena con il saluto romano che emerge con prepotenza compulsiva dal braccio artificiale, così nel catechismo dell'Italia rievangelizzata di oggi s'è aggiunta un'ottava opera: "Punire Welby, vivo o morto".


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Commento di Andrea Ermano - venerdì 12 novembre 2010


Discernimento tra eutanasia "attiva" e "passiva"

Una valutazione molto generale del problema "eutanasia" può prendere le mosse dal principio secondo cui la vita di una persona si configura come un bene "indisponibile".

La vita di una persona non ha un "prezzo", ma solo una sua incommensurabile "dignità".

Una persona non "appartiene" a nessuno, neanche alla persona stessa. Una persona "è" (ma non "ha") la "sua" esistenza.

Ci si domanderà: ma, se la “mia” vita non mi appartiene fino in fondo, allora di chi è? Non ci si lasci trarre in inganno dal possessivo (si dice "mia moglie", "mio marito", "mia figlia", "mio figlio" ecc., ma senza intendere un rapporto proprietario).

Bisogna semplicemente accettare che la vita umana si sottrae a categorie come quelle del possesso, della proprietà ecc.

Tuttavia, quello che una persona effettivamente "ha", in rapporto alla propria vita, è la responsabilità. A ciascuno, responsabile della propria vita, va perciò stesso riconosciuta la facoltà di non accettare cibo, acqua, medicine, terapie.

In tal senso ognuno, in condizioni normali, possiede già la legittima facoltà naturale di determinare la propria morte, se proprio la vuole. Questa naturale facoltà si manifesta secondo modalità passive e indirette, senza bisogno di mettere in atto gesti inconsulti e violenti.

Se vogliamo partire di qui per definire l'eutanasia, cioè se vogliamo partire da una specie di sciopero della fame o della sete, delle medicine o delle terapie, quali potrebbero essere, di grazia, le contro-argomentazioni?

E, inversamente, quale ratio possiamo rappresentarci come sufficiente a oltrepassare, invece, il limite naturale di cui sopra? Come giustificare atti capaci di effettivamente "dare la morte" a qualcuno?

La questione si diparte in due direzioni. Da un lato ci si può domandare se sia lecito "staccare la spina" a un paziente in coma irreversibile, non più in grado d'intendere e di volere – come nel caso di Eluana Englaro. Dall'altro lato ci si pone la domanda se sia lecito "aiutare" un uomo a morire, mentre questi – come nel caso di Piergiorgio Welby – possiede intelletto e volontà, ma non più la capacità motoria di attuare la propria decisione di morire.

Nel primo caso, quello di Eluana, sarebbe fuorviante parlare ancora di una vita "personale".

Eluana cessò di vivere una "sua" vita quando il coma divenne irreversibile, quando cioè la morte cerebrale calò su di lei.

Una volta appurata la morte cerebrale – con tutta l'accuratezza e la serietà di cui le conoscenze medico-scientifiche ci rendono capaci nell’appurare un caso così doloroso – noi riteniamo lecito cessare ogni accanimento terapeutico, esattamente come infine è avvenuto, nonostante l'inqualificabile gazzarra neo-clericale montata ad arte, e per scopi inconfessabili, da gente a cui di Eluana non importava nulla.

In senso proprio si può parlare di "eutanasia" solo nel caso cioè in cui sia ancora realmente in gioco la vita di una persona: che si definisce come soggetto capace, quanto meno sul piano potenziale, d'intendere e di volere.

Il problema si pone quando una "persona" abbia coscientemente assunto la decisione di morire, senza poter realizzare questa decisione.

Attenzione, però, la decisione di morire è assunta in questo secondo caso sulla base di quella che, alla fine dei conti, non possiamo che definire un'opinione: l’opinione, segnatamente, secondo cui la propria vita non è degna di essere ulteriormente vissuta.

Dobbiamo essere consapevoli di questo aspetto della questione, perché nessuna opinione, per quanto sofferta, può apparirci sufficiente a legittimare un omicidio.

"Non uccidere", dice la Legge.

Non significa che nessuno può rivendicare il "diritto" di uccidere nessuno, nemmeno se stesso?

Certo, nella vita e nella storia umana, possono darsi infinite situazioni nelle quali il "Non uccidere", che vale in linea di diritto, entra poi, e talvolta ferocemente, in contraddizione con se stesso (ad esempio nel caso della legittima difesa).

Ma non possiamo certo esaminare qui tutte le fattispecie; qui ci basta focalizzare un principio generale chiaro e comprensibile a tutti. E poiché il nostro punto di partenza è la dignità personale, non possiamo che mantenere fermo il criterio secondo cui nessun'opinione potrà mai bastare a togliere la vita a qualcuno, nemmeno nel caso in cui sia questo qualcuno a volerlo, in conseguenza di atroci dolori.

Per sedare i dolori ci sono gli antidolorifici.

Ora, se nessuno (e quindi neanche la persona stessa) pare avere diritto di causare direttamente la morte di un essere umano sulla base della propria opinione, non si vedono argomenti plausibili a favore dell'eutanasia "attiva".

Restano invece buone ragioni a favore dell'eutanasia "passiva", cioè a favore dell'astensione da ogni terapia (eccettuata quella antidolorifica) una volta che il paziente abbia confermato una sua decisione in questo senso.

In conclusione, l'impiego di agenti letali, anche conforme alla volontà del paziente, ci appare inaccettabile: la vita personale non è una grandezza disponibile.

Ma, del pari, la somministrazione forzata di terapie sulla base di una qualsiasi imposizione autoritativa (sanitaria, statuale, morale o religiosa) la quale si opponga alla volontà del paziente sarebbe anch'essa del tutto inaccettabile: nemmeno la coscienza individuale è una grandezza disponibile.


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Editoriale di Andrea Ermano - venerdì 3 dicembre 2010


Ad agio

Motus in fine velocior. Non lo dico io. Lo dice l’adagio. E c’è del vero. Ricordate quell’esilarante ricostruzione che un sommo scienziato (Gerd Binnig?) fornì una volta a Scientific American circa l’accelerazione gravitazionale? La caduta di un “grave” veniva descritta in chiave parodistica come una tresca di animali selvatici in fregola nella stagione degli accoppiamenti. A conclusione della tresca, invece di accoppiarsi, il proietto, soggetto a forza di gravità, si spiaccicava per terra.

Nelle storie di catastrofi politiche, quando la memoria retrocedente s’applica a ricomporre ciò che fu, o non fu, sempre finisce per focalizzarsi un fenomeno accelerativo: “Credemmo di avere più tempo a disposizione”, dicono i reduci per descrivere la dinamica di un appuntamento, mancato, con la storia.

Per esempio? Pensate alla caduta del Muro di Berlino. Che colse quelli della mia generazione tutti impreparati. Pensammo che Gorbaciov e l’impero sovietico non potevano liquefarsi in quattro e quattr’otto.

Come invece fu.

Nacque allora la Seconda Repubblica.

Ma nacque davvero? Massimo Cacciari ci propone di espungere dal lessico quest’infausta espressione dal sapore di porcata.

L’ordinalità di una repubblica (prima, o seconda, o terza che sia) presupporrebbe qualche efficacia costituente, che restò a noi preclusa per l’inanità di un’intera classe dirigente (cioè di noi stessi).

Noi disfacemmo un sistema politico per farne un altro, e migliore. A parole. Ma poi, in realtà? Dov’è la Seconda Repubblica?

Il nostro naufragio somiglia a quella commedia musicale di Daniel Rohr, ispirata ai Pink Floyd, con quattro astronauti dispersi nello spazio.

Molto indignati.

Uno di loro, a un certo punto, mentre schizza via con una velocità di ventimila chilometri al secondo, declama con voce stentorea: “Ma devono venire a prenderci! Non possono mica lasciarci qui!”

Come no.

Qui dove?

Ammesso e non concesso che uno volesse fare la propria parte per salvare la patria nei centocinquant’anni della sua esistenza – esistenza un po’ garibaldina, un po’ brigantesca, un po’ pilatesca, ma anche un bel po’ pretesca e alquanto cannibalesca – ammesso e non concesso: fatto sta che la navicella della res publica è stata frantumata da un piccolo meteorite staccatosi dalla Costellazione del Muro nel novembre dell'Ottantanove.

Noi – vivi grazie alle nostre tute pressurizzate di fabbricazione cino-americana – stiamo sfrecciando, senza scopo né costrutto, verso l'infinito.

Ma, ecco di laggiù, nel nulla interstellare, ecco che inizia a brillare una lucina. Durante il corso della narrazione apprenderemo trattarsi dell’astronave CEI, comandata dal card. Ruini, abilissimo ammiraglio dello spazio, fermamente deciso a soccorrere la sua Italia, quella stessa Italia che aveva contribuito a radere al suolo.

Che farà?

Accudirà Berlusconi come una brava genitrice? O gli scatenerà addosso la lupa famelica?

Forse neppure Dio lo sa, sempre che esista e s’interessi del nostro Paese troppo lungo.

Verosimilmente, anche a questo giro di boa della storia, più di qualcuno avrà sbagliato i suoi calcoli. Tanto più che le dinamiche spesso non consentono di essere calcolate, e quelle politiche men che meno. Perciò, faccia ora ciascuno quel che deve. E succeda quel che può. (3.12.2010)



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Editoriale di Andrea Ermano - sabato 11 dicembre 2010

Il problema si sposta ora a sinistra

Un anno fa, in qualsiasi città europea, ci prendevano in giro per via del “lettone di Putin”, le escort, le minorenni ecc. Ma nei dodici mesi trascorsi l'establishment italiano ha compiuto notevoli progressi sul solco della sua perversione.

Tariffe parlamentari. E voti di fiducia.

Brindisi vaticani alla salute di Silvio il Munifico, che Iddio ce lo conservi. E miliardi di euro al clero.

Mutui. Promesse. Candidature. Sottosegretariati. E deputati migranti da gruppi di parvenu a gruppi di parvenu.

Notizie che fanno due o tre giri del mondo.

Quando la “sindrome weimariana” giunge alla fase dello scatenamento cinico, i furbi cancellano ogni tributo (ormai inutile, pensano loro) del vizio alla virtù.

Oggi, in qualsiasi città europea, appena apprendono che sei italiano, gli vedi calare una velatura sugli occhi. Hai come l’impressione che si vergognino per noi.

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Esca o meno confortata da fragili basi parlamentari, e a quale prezzo, la reputazione dell’attuale premier è pari solo alla coesione del centro-destra. Un’anatra zoppa.

Il problema si sposta, ora, nel campo della sinistra, la cui strategia non può che consistere nel perseguimento di una sua minima unità, sia pure nell’orizzonte plurale dei soggetti socialisti, ecologisti e liberaldemocratici che vogliono concorrere al governo del Paese.

Per fare questo, occorre imprimere una decisa spinta neo-frontista alle dinamiche politiche della sinistra italiana.

Le grandi mobilitazioni popolari che continuamente si sono succedute in questo lungo autunno (e che fortunatamente si susseguono mentre scriviamo: oggi è il giorno di Bersani) costituiscono il bandolo dell'intricata matassa.

Se questo ciclo di mobilitazioni continuerà e se saprà rimanere dentro la logica pacifica che finora è sostanzialmente prevalsa – e a tal fine bisogna guardarsi da ogni violenza, foss’anche soltanto verbale – allora in Italia matureranno le condizioni per quell’alternativa di sinistra che attendiamo da una vita e che è assolutamente necessaria alla salute della nostra democrazia. (11.12.2010)



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E DOPO ?

Editoriale di Andrea Ermano - sabato 18 dicembre 2010


Laddove il vascello nazionale andasse a frantumarsi tra i marosi della mondializzazione, i poteri forti perderebbero una bella cuccagna di privilegi, e giustamente si preoccupano, cercando una via d’uscita. Evitare il naufragio dell’Italia risponde d’altronde anche agli interessi prevalenti del popolo lavoratore e della comunità internazionale. Di conseguenza, è ancora dato sperare che il nostro paese riesca, con un qualche misterioso guizzo di genio, a scansare lo schianto.

“Il governo mangerà il panettone, ma non la colomba”, prevede il leghista Calderoli. “Lui” invece assicura di poter arrivare a fine legislatura. “Lui” è Silvio Berlusconi che, a margine del Consiglio europeo di Bruxelles, si è definito “l’unico boss virile”, come suona l’anagramma del suo nome. Tra Bossi e il “boss virile” si preannuncia, così, un conflitto d’interessi che prima o poi potrebbe determinare il crac dell’attuale maggioranza.

Fin dai tempi antichi si sa che ogni determinazione pone fine a qualcosa, ma dà inizio a qualcosa d’altro. E, dunque, in questi istanti finali, in questo sbrindellato minutaggio di recupero nel secondo e ultimo tempo supplementare del berlusconismo, che cosa, di grazia, sta cominciando?

Può darsi che, per conservare l’unità nel centocinquantesimo dalla nascita dello stato italiano, il nostro establishment punti allo smontaggio della Lega, sempre più simile del resto a un reperto bellico inesploso. Nel Carroccio oscuramente lo intuiscono. Infatti, non chiedono altri ministeri (come pur potrebbero), ma elezioni anticipate, onde mettere in sicurezza il capitale di consensi prima della tempesta.

Se il cedimento strutturale del governo avvenisse non subito, ma tra un paio di mesi, potrebbero mancare i margini per elezioni anticipate prima dell’autunno prossimo. Una continuazione della legislatura con altro premier favorirebbe a quel punto il parto di un governo di “responsabilità nazionale”. Parto lieto ad alcuni, ma doloroso ad altri, perché ogni nuova maggioranza – inevitabilmente imperniata sui terzopolisti di Fini, Casini e Rutelli – innescherebbe una serie di spaccature sia nel campo del PDL, sia in quello del PD, incluse le file padane e dipietriste: i moderati di ogni schieramento convergerebbero verso il centro.

Ci stiamo avvicinando al bivio. Il tentativo gattopardesco di scaricare l’intera crisi di sistema sulla politica, affinché l’assetto di potere rimanesse immutato, dovrà lasciare il posto a riforme vere. E qui sorgono le preoccupazioni più serie, perché riforme vere presupporrebbero, diciamo così, una “decrescita” dei poteri forti, una loro capacità di autoriforma, per la quale non si ravvisano moltissimi precedenti storici.

Le gerarchie vaticane preferirebbero tirare a campare, almeno per un po’, senz'ancora uscire dal berlusconismo. E dopo?

Che le necessarie riforme possano realizzarsi grazie a una nuova maggioranza di responsabilità nazionale imperniata sul neo-centrismo è ipotesi tutta da verificare. L’abitudine storica delle corporazioni di delegare ad altri ogni sforzo e rinuncia lascia temere l’insorgere di gravi tensioni sociali. Forse è proprio questo ciò che si attende da parte di lor signori per scatenare poi la reazione d’ordine. Non sarebbe la prima volta.

E a sinistra? Che si fa? Quando gli ultimi neo-centristi avranno abbandonato la sinistra al suo destino per non morire socialisti, resterebbe una possibilità: iniziare ora, adesso, subito, a lavorare per una solida alternativa politica. Occorre un'alleanza neo-frontista, sul genere di quella stipulata tra Pietro Nenni e Palmiro Togliatti. Si dirà che fu l’Errore degli Errori perché, all'inizio della guerra fredda, consegnò il popolo di sinistra a un lungo destino di opposizione. Vero, ma la guerra fredda non c’è più.

Una sinistra capace di candidarsi domani al governo del Paese, anche se ciò oggi non si annuncia come un obiettivo immediato, andrebbe a costituire una preziosissima riserva di democrazia, soprattutto quando il disegno neo-centrista, emergente dietro la fine dell’era berlusconiana, esaurisse (prevedibilmente) la propria spinta propulsiva lungo i tornanti di una turbolenza globale che, questa sì, non guarda in faccia a nessuno. (18.12.2010)





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