Editoriale del direttore

Da L'Avvenire dei lavoratori - Periodico socialista dal 1899.




Editoriale di lunedì 20 settembre 2010

La parola "mobilitarsi"

Il Vaticano e la Confindustria giocano a frammentare una rappresentanza politica unitaria della laicità e del mondo del lavoro.


Giunti al punto in cui siamo, l’ultima cosa di cui si sentiva l’esigenza era il deflagrare delle contraddizioni interne al PD. Contraddizioni che vengono da lontano. Grosse, crasse, evidenti. Ma meglio sarebbe se non esplodessero adesso.

E invece è proprio ciò che si è temuto con la ridiscesa in campo di Veltroni. Che ora nega di avere detto al suo partito che ci vuole “un papa straniero”, con buona pace delle primarie e degli statuti secondo cui il leader è Bersani in quanto segretario nazionale emerso da un vasta consultazione.

Veltroni ha raccolto stavolta una ben scarsa degnazione. Gli hanno voltato le spalle persino la “sua” direttrice dell’Unità, Concita de Gregorio, e il vecchio mentore, Reichlin, che – “sorpreso, preoccupato, allibito” – ha stigmatizzato “la vanità e l'inconcludenza… delle polemiche che lacerano la sinistra”.

Autorevoli osservatori vedono in questa frattura un sintomo terminale della crisi che attanaglia il maggior partito d’opposizione. Ognun capisce che, se il centro-sinistra non riprendesse quota ora che l’astro di Berlusconi tramonta, il PD potrebbe sfarinarsi, completamente. La destra coglierebbe un’insperata vittoria nella prospettiva (probabile sebbene non immediata) di elezioni anticipate.

Qui si nasconde l’insidia più grande per il popolo di sinistra, popolo molto paziente, che, dopo tre lustri di sueño che avanza, rischia ora di risvegliarsi in uno scenario nel quale le destre potrebbero varcare il Rubicone della maggioranza qualificata puntando dritte sulla Costituzione della Repubblica.

L’insidia non nasce dalla possibilità (già di per sé inquietante) che alla prossima tornata elettorale Berlusconi (o chi per lui) raccolga un’altra volta consensi maggiori a quelli del PD e quindi grazie al “porcellum” si aggiudichi la dotazione del 55% dei seggi “per la governabilità”.

Non è questa l' insidia più grande. Il rischio vero è che, insieme al predetto 55% dei seggi, la destra possa disporre di uno zoccolo aggiuntivo intorno al 10%, nel torbido gioco delle parti che già vediamo delinearsi tra Lega Nord e Partito del Sud. Se la destra, nelle sue ambigue articolazioni, riuscisse ad attestarsi sulla soglia dei due terzi dei seggi parlamentari, le si spalancherebbe la possibilità di stravolgere la Costituzione.

Il gruppo dirigente del PCI-PDS-DS-PD porta su di sé gravi responsabilità per questa situazione politica incresciosa. Che cosa può fare per rimediare? Anzitutto dovrebbe abbandonare la pazza pazza idea di dare sintesi, dentro a un partito unico dell’eccezione italiana, al tradizionalismo cattolico, al mercatismo capitalista e alle aspirazioni del movimento operaio. Una sintesi di questo genere può realizzarsi in una coalizione di partiti secondo il ritmo delle stagioni politiche, degli accordi di governo, delle legislature. Ma non è mai avvenuta dentro a un unico partito, e men che meno in un partito di sinistra.

Fatta ovvia astrazione dalla questione ambientale, che è trasversale, pare che un partito di sinistra possa (e quindi debba) portare a sintesi due interessi: il laborismo sociale e la laicità dello Stato. Il luogo di questa sintesi s’identifica, storicamente, con il socialismo democratico europeo. Nulla vieta ai tradizionalisti cristiani di osteggiare una visione secolarizzata dello stato e impegnarsi solo in una qualche forma di solidarismo o di carità. Così, nessuno impedisce ai fautori della libera impresa di sostenere un sano laicismo opponendosi sull'altro versante a ogni rivendicazione sociale. Ma non è un caso se, intorno a queste costellazioni, si sono formate, nel corso del tempo, tre grandi famiglie politiche europee: la famiglia socialdemocratica, quella popolare e quella liberale.

Il PCI-PDS-DS-PD, che trae la stragrande parte dei propri consensi dal popolo di sinistra nel quale il valori laico-laboristi risultano largamente egemoni, farebbe un gran bel piacere a se stesso qualora si ponesse stabilmente sotto l’egida del socialismo democratico europeo. E bisogna dare atto qui a Bersani di avere seguito un serio percorso di ritorno alla ragione dopo l’avventura veltroniana; avventura disastrosissima quant'altre mai, essendo costata la caduta del governo Prodi, la lacerazione dell’intero tessuto del centro-sinistra italiano, la sconfitta alle elezioni politiche, il ritorno di Berlusconi a Palazzo Chigi, le sconfitte a Roma, in Sardegna ecc., il crollo dei consensi dello stesso PD dal 33% al 23%. Bisogna dare atto a Bersani di avere iniziato a recuperare consensi e credibilità lungo una linea moderatamente socialdemocratica.

Vaticano e Confindustria non apprezzano nulla di tutto questo, ovviamente. E, quindi, si capisce che Bersani non trovi grandi sponde nel sistema dei mass media italiani, che dai “poteri forti” dipendono.

Vaticano e Confindustria pongono, e non certo da oggi, vuoi sulla laicità, vuoi sul laborismo, i loro veti incrociati, che poi non sono neanche dei veri e propri “veti”, ma solo come dire degli “sconsigli”, e però hanno lo stesso effetto di un veto, nel diffuso clima di conformismo e ipocrisia. Non per caso, dopo la scissione di Livorno e l’avvento del fascismo, l’Italia non ha più avuto una grande e solida forza riformista.

Vaticano e Confindustria giocano a frammentare una rappresentanza politica unitaria della laicità e del laborismo, anche perché la famiglia socialdemocratica europea presenta caratteristiche di autonomia incompatibili con i pizzi e i pizzini del Gattopardo nazionale.

I veti incrociati di Vaticano e di Confindustria hanno una loro logica, rispondono alla gelida autoreferenzialità dei “poteri forti” italiani. Ma la gelida logica del potere comporta ormai un serio pericolo per gli equilibri democratici nel Paese.

Se la tenuta del centro-sinistra diventa l’ultima vera garanzia per la tenuta dell’assetto istituzionale nato con la Costituzione del 1947, è giunto allora il momento d’iniziare a mobilitarsi.

Con animo tranquillo, ma fermo, iniziamo a ripetere questa parola: mobilitarsi, mobilitarsi, mobilitarsi.


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Editoriale di venerdì 24 settembre 2010


Che cosa vuol dire la parola "mobilitarsi"?

Una lettera sull'editoriale precedente


Caro direttore, rigorosa, la sequenza delle argomentazioni contenute nel tuo editoriale della scorsa settimana (v. qui sotto La parola "mobilitarsi", ndr) ed efficace il loro culminare in un grido di impegno e di lotta.

Ma, nel mio caso di iscritto al Pd, orfano assoluto di padrini (un bene in sé, ma nel costume corrente di partito moderno votato all'impotenza), dedito ad iniziative sociali, nel disinteresse assoluto del partito, quasi "ultimo mohicano" nel rivendicare le mie credenze socialiste, come devo concepire un tipo coerente e realistico di mobilitazione?

Eppoi dove attingi tante certezze nell'autenticità delle vocazioni socialiste di Bersani che vai citando?

Ho ormai una sperimentazione di queste personalità ex Pci, ex Pds, ex Ds, per giungere alla stessa conclusione di Penelope nei riguardi dei Proci... Spero solo nel destino della Hybris...

Ma per quanto tempo?

Comunque, io lavoro e lavoro molto, anche se concludo il 5% di quello che è il mio impegno.

Pier Luigi Sorti, Roma


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La risposta del direttore

Caro prof. Sorti, ti ringrazio molto della tua lettera, che centra il mio problema, perché la parola "mobilitarsi" riguarda in effetti ciascuno di noi. Personalmente.

Non ti dirò quindi che la risposta alla domanda stia nei sindacati europei che pure hanno proclamato una giornata di agitazione il 29 settembre. Senza contare la "campagna d'autunno" preannunciata da Bersani alla Festa del PD di Torino.

Anche se si tratta d'importanti appuntamenti, che vanno sostenuti, non mi pare questo il problema, che focalizza, invece, la necessità di un coinvolgimento personale e diretto.

Il problema nasce anzitutto dall'esaustione epocale del principio della "rappresentanza politica", che dopo il crollo della prima repubblica è divenuto il luogo di un estremismo trasformista dove il mandato dei cittadini è travolto e nullificato secondo il ben noto meccanismo autodistruttivo che Sloterdijk, nella sua diagnosi della sindrome weimariana, definisce "scatenamento cinico".

Lo scatenamento cinico, in corso nella nostra Weimar al rallentatore, ha travolto, tra le tante cose, la laicità dello Stato, il valore del lavoro, l'istruzione pubblica e la ricerca, l'umanità nei riguardi dell'ospite e dello straniero. E s'è persa ogni traccia, ormai, di quel senso minimo di pudore che è il presupposto, prepolitico, della polis.

Qui, però, appare un "punto di flesso". Qui, per usare la nota metafora, il pendolo della storia si ferma e inverte il senso di marcia.

Ma, se l'astro della rappresentanza tramonta insieme al berlusconismo, quale potrà essere, allora, l'altro "punto di flesso", quello verso cui il pendolo tenderà d’ora in poi? Stiamo per assistere a una nuova irruzione delle masse nell'agone politico?

Se così sarà, si tratterrebbe d'interpretare in senso costruttivo il trend, sventando il compiersi della sindrome weimariana in corso.

Per conseguire tale obiettivo occorre, appunto, "mobilitarsi".

"Mobilitarsi" vuol dire: dare forma pubblica e visibile al bisogno di partecipazione politica che cova sotto la cenere del disaffezionamento di massa e che rischia, altrimenti, di esplodere in modo dirompente.

Dire "mobilitarsi" non investe solo le sorti del berlusconismo (o, specularmente, del veltronismo), ma riflette un'esigenza ben più profonda della democrazia nel nostro Paese, e non solo in esso.

Solo una vasta e attiva partecipazione ci può salvare, perché i problemi politici sul tappeto (superfluo qui elencarli) sono troppo grandi, noti e seri per poterne delegare la soluzione a delle élites. È quindi evidente che, giunti al punto in cui siamo, occorre la manforte della partecipazione popolare. Tutti coloro i quali posseggano ancora il ben dell'intelletto e un poco di buona volontà lo capiscono. Ma restano perplessi, anzi disgustati, dinanzi alle vicende della rappresentanza politica.

Prima o poi, il popolo percepirà la rappresentanza non semplicemente come fonte di ripugnanza, ma vedrà come questa ripugnanza è un astuto strumento di distorsione e “trasformazione” nullificante della volontà popolare. E allora l’ambiguo incantesimo si romperà. E allora s'innescherà un nuovo ciclo di partecipazione.

Quando avverrà tutto ciò?

Non conosco la risposta (penso che questo processo sia già in corso). E comunque la domanda è esatta, se così posso dire. Ognuno dovrebbe chiedersi: "Che cosa posso fare io per...?". "Come devo concepire un tipo coerente e realistico di mobilitazione?". Ecc.

Mobilitarsi presuppone, in via germinale, proprio questo: che un gran numero di persone inizi a porsi domande di questo genere, con molta serietà.

Ma mobilitarsi significa solo porsi delle domande?

No, ovviamente. Significa fornire un contributo proprio al futuro comune: indelegabile, indemandabile, insostituibile, sebbene coordinato in un vasto movimento politico.

Un cordiale saluto

Andrea Ermano





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