Editoriale del direttore

Da L'Avvenire dei lavoratori - Periodico socialista dal 1899.

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Editoriale di Andrea Ermano - lunedì 20 settembre 2010  
Editoriale di Andrea Ermano - lunedì 20 settembre 2010  
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LA PAROLA "MOBILITARSI"
 
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Il Vaticano e la Confindustria giocano a frammentare una rappresentanza politica unitaria della laicità e del mondo del lavoro.
 
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'''''Il Vaticano e la Confindustria giocano a frammentare una rappresentanza politica unitaria della laicità e del mondo del lavoro'''.''
Giunti al punto in cui siamo, l’ultima cosa di cui si sentiva l’esigenza era il deflagrare delle contraddizioni interne al PD. Contraddizioni che vengono da lontano. Grosse, crasse, evidenti. Ma meglio sarebbe se non esplodessero adesso.  
Giunti al punto in cui siamo, l’ultima cosa di cui si sentiva l’esigenza era il deflagrare delle contraddizioni interne al PD. Contraddizioni che vengono da lontano. Grosse, crasse, evidenti. Ma meglio sarebbe se non esplodessero adesso.  

Versione delle 08:51, 16 nov 2010




Editoriale di Andrea Ermano - lunedì 20 settembre 2010


LA PAROLA "MOBILITARSI"

Il Vaticano e la Confindustria giocano a frammentare una rappresentanza politica unitaria della laicità e del mondo del lavoro.

Giunti al punto in cui siamo, l’ultima cosa di cui si sentiva l’esigenza era il deflagrare delle contraddizioni interne al PD. Contraddizioni che vengono da lontano. Grosse, crasse, evidenti. Ma meglio sarebbe se non esplodessero adesso.

E invece è proprio ciò che si è temuto con la ridiscesa in campo di Veltroni. Che ora nega di avere detto al suo partito che ci vuole “un papa straniero”, con buona pace delle primarie e degli statuti secondo cui il leader è Bersani in quanto segretario nazionale emerso da un vasta consultazione.

Veltroni ha raccolto stavolta una ben scarsa degnazione. Gli hanno voltato le spalle persino la “sua” direttrice dell’Unità, Concita de Gregorio, e il vecchio mentore, Reichlin, che – “sorpreso, preoccupato, allibito” – ha stigmatizzato “la vanità e l'inconcludenza… delle polemiche che lacerano la sinistra”.

Autorevoli osservatori vedono in questa frattura un sintomo terminale della crisi che attanaglia il maggior partito d’opposizione. Ognun capisce che, se il centro-sinistra non riprendesse quota ora che l’astro di Berlusconi tramonta, il PD potrebbe sfarinarsi, completamente. La destra coglierebbe un’insperata vittoria nella prospettiva (probabile sebbene non immediata) di elezioni anticipate.

Qui si nasconde l’insidia più grande per il popolo di sinistra, popolo molto paziente, che, dopo tre lustri di sueño che avanza, rischia ora di risvegliarsi in uno scenario nel quale le destre potrebbero varcare il Rubicone della maggioranza qualificata puntando dritte sulla Costituzione della Repubblica.

L’insidia non nasce dalla possibilità (già di per sé inquietante) che alla prossima tornata elettorale Berlusconi (o chi per lui) raccolga un’altra volta consensi maggiori a quelli del PD e quindi grazie al “porcellum” si aggiudichi la dotazione del 55% dei seggi “per la governabilità”.

Non è questa l' insidia più grande. Il rischio vero è che, insieme al predetto 55% dei seggi, la destra possa disporre di uno zoccolo aggiuntivo intorno al 10%, nel torbido gioco delle parti che già vediamo delinearsi tra Lega Nord e Partito del Sud. Se la destra, nelle sue ambigue articolazioni, riuscisse ad attestarsi sulla soglia dei due terzi dei seggi parlamentari, le si spalancherebbe la possibilità di stravolgere la Costituzione.

Il gruppo dirigente del PCI-PDS-DS-PD porta su di sé gravi responsabilità per questa situazione politica incresciosa. Che cosa può fare per rimediare? Anzitutto dovrebbe abbandonare la pazza pazza idea di dare sintesi, dentro a un partito unico dell’eccezione italiana, al tradizionalismo cattolico, al mercatismo capitalista e alle aspirazioni del movimento operaio. Una sintesi di questo genere può realizzarsi in una coalizione di partiti secondo il ritmo delle stagioni politiche, degli accordi di governo, delle legislature. Ma non è mai avvenuta dentro a un unico partito, e men che meno in un partito di sinistra.

Fatta ovvia astrazione dalla questione ambientale, che è trasversale, pare che un partito di sinistra possa (e quindi debba) portare a sintesi due interessi: il laborismo sociale e la laicità dello Stato. Il luogo di questa sintesi s’identifica, storicamente, con il socialismo democratico europeo. Nulla vieta ai tradizionalisti cristiani di osteggiare una visione secolarizzata dello stato e impegnarsi solo in una qualche forma di solidarismo o di carità. Così, nessuno impedisce ai fautori della libera impresa di sostenere un sano laicismo opponendosi sull'altro versante a ogni rivendicazione sociale. Ma non è un caso se, intorno a queste costellazioni, si sono formate, nel corso del tempo, tre grandi famiglie politiche europee: la famiglia socialdemocratica, quella popolare e quella liberale.

Il PCI-PDS-DS-PD, che trae la stragrande parte dei propri consensi dal popolo di sinistra nel quale il valori laico-laboristi risultano largamente egemoni, farebbe un gran bel piacere a se stesso qualora si ponesse stabilmente sotto l’egida del socialismo democratico europeo. E bisogna dare atto qui a Bersani di avere seguito un serio percorso di ritorno alla ragione dopo l’avventura veltroniana; avventura disastrosissima quant'altre mai, essendo costata la caduta del governo Prodi, la lacerazione dell’intero tessuto del centro-sinistra italiano, la sconfitta alle elezioni politiche, il ritorno di Berlusconi a Palazzo Chigi, le sconfitte a Roma, in Sardegna ecc., il crollo dei consensi dello stesso PD dal 33% al 23%. Bisogna dare atto a Bersani di avere iniziato a recuperare consensi e credibilità lungo una linea moderatamente socialdemocratica.

Vaticano e Confindustria non apprezzano nulla di tutto questo, ovviamente. E, quindi, si capisce che Bersani non trovi grandi sponde nel sistema dei mass media italiani, che dai “poteri forti” dipendono.

Vaticano e Confindustria pongono, e non certo da oggi, vuoi sulla laicità, vuoi sul laborismo, i loro veti incrociati, che poi non sono neanche dei veri e propri “veti”, ma solo come dire degli “sconsigli”, e però hanno lo stesso effetto di un veto, nel diffuso clima di conformismo e ipocrisia. Non per caso, dopo la scissione di Livorno e l’avvento del fascismo, l’Italia non ha più avuto una grande e solida forza riformista.

Vaticano e Confindustria giocano a frammentare una rappresentanza politica unitaria della laicità e del laborismo, anche perché la famiglia socialdemocratica europea presenta caratteristiche di autonomia incompatibili con i pizzi e i pizzini del Gattopardo nazionale.

I veti incrociati di Vaticano e di Confindustria hanno una loro logica, rispondono alla gelida autoreferenzialità dei “poteri forti” italiani. Ma la gelida logica del potere comporta ormai un serio pericolo per gli equilibri democratici nel Paese.

Se la tenuta del centro-sinistra diventa l’ultima vera garanzia per la tenuta dell’assetto istituzionale nato con la Costituzione del 1947, è giunto allora il momento d’iniziare a mobilitarsi.

Con animo tranquillo, ma fermo, iniziamo a ripetere questa parola: mobilitarsi, mobilitarsi, mobilitarsi.


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Editoriale di Andrea Ermano - venerdì 24 settembre 2010


CHE COSA VUOL DIRE LA PAROLA "MOBILITARSI"?

Una lettera sull'editoriale precedente


Caro direttore, rigorosa, la sequenza delle argomentazioni contenute nel tuo editoriale della scorsa settimana (v. qui sotto La parola "mobilitarsi", ndr) ed efficace il loro culminare in un grido di impegno e di lotta.

Ma, nel mio caso di iscritto al Pd, orfano assoluto di padrini (un bene in sé, ma nel costume corrente di partito moderno votato all'impotenza), dedito ad iniziative sociali, nel disinteresse assoluto del partito, quasi "ultimo mohicano" nel rivendicare le mie credenze socialiste, come devo concepire un tipo coerente e realistico di mobilitazione?

Eppoi dove attingi tante certezze nell'autenticità delle vocazioni socialiste di Bersani che vai citando?

Ho ormai una sperimentazione di queste personalità ex Pci, ex Pds, ex Ds, per giungere alla stessa conclusione di Penelope nei riguardi dei Proci... Spero solo nel destino della Hybris...

Ma per quanto tempo?

Comunque, io lavoro e lavoro molto, anche se concludo il 5% di quello che è il mio impegno.

Pier Luigi Sorti, Roma


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La risposta del direttore

Caro prof. Sorti, ti ringrazio molto della tua lettera, che centra il mio problema, perché la parola "mobilitarsi" riguarda in effetti ciascuno di noi. Personalmente.

Non ti dirò quindi che la risposta alla domanda stia nei sindacati europei che pure hanno proclamato una giornata di agitazione il 29 settembre. Senza contare la "campagna d'autunno" preannunciata da Bersani alla Festa del PD di Torino.

Anche se si tratta d'importanti appuntamenti, che vanno sostenuti, non mi pare questo il problema, che focalizza, invece, la necessità di un coinvolgimento personale e diretto.

Il problema nasce anzitutto dall'esaustione epocale del principio della "rappresentanza politica", che dopo il crollo della prima repubblica è divenuto il luogo di un estremismo trasformista dove il mandato dei cittadini è travolto e nullificato secondo il ben noto meccanismo autodistruttivo che Sloterdijk, nella sua diagnosi della sindrome weimariana, definisce "scatenamento cinico".

Lo scatenamento cinico, in corso nella nostra Weimar al rallentatore, ha travolto, tra le tante cose, la laicità dello Stato, il valore del lavoro, l'istruzione pubblica e la ricerca, l'umanità nei riguardi dell'ospite e dello straniero. E s'è persa ogni traccia, ormai, di quel senso minimo di pudore che è il presupposto, prepolitico, della polis.

Qui, però, appare un "punto di flesso". Qui, per usare la nota metafora, il pendolo della storia si ferma e inverte il senso di marcia.

Ma, se l'astro della rappresentanza tramonta insieme al berlusconismo, quale potrà essere, allora, l'altro "punto di flesso", quello verso cui il pendolo tenderà d’ora in poi? Stiamo per assistere a una nuova irruzione delle masse nell'agone politico?

Se così sarà, si tratterrebbe d'interpretare in senso costruttivo il trend, sventando il compiersi della sindrome weimariana in corso.

Per conseguire tale obiettivo occorre, appunto, "mobilitarsi".

"Mobilitarsi" vuol dire: dare forma pubblica e visibile al bisogno di partecipazione politica che cova sotto la cenere del disaffezionamento di massa e che rischia, altrimenti, di esplodere in modo dirompente.

Dire "mobilitarsi" non investe solo le sorti del berlusconismo (o, specularmente, del veltronismo), ma riflette un'esigenza ben più profonda della democrazia nel nostro Paese, e non solo in esso.

Solo una vasta e attiva partecipazione ci può salvare, perché i problemi politici sul tappeto (superfluo qui elencarli) sono troppo grandi, noti e seri per poterne delegare la soluzione a delle élites. È quindi evidente che, giunti al punto in cui siamo, occorre la manforte della partecipazione popolare. Tutti coloro i quali posseggano ancora il ben dell'intelletto e un poco di buona volontà lo capiscono. Ma restano perplessi, anzi disgustati, dinanzi alle vicende della rappresentanza politica.

Prima o poi, il popolo percepirà la rappresentanza non semplicemente come fonte di ripugnanza, ma vedrà come questa ripugnanza è un astuto strumento di distorsione e “trasformazione” nullificante della volontà popolare. E allora l’ambiguo incantesimo si romperà. E allora s'innescherà un nuovo ciclo di partecipazione.

Quando avverrà tutto ciò?

Non conosco la risposta (penso che questo processo sia già in corso). E comunque la domanda è esatta, se così posso dire. Ognuno dovrebbe chiedersi: "Che cosa posso fare io per...?". "Come devo concepire un tipo coerente e realistico di mobilitazione?". Ecc.

Mobilitarsi presuppone, in via germinale, proprio questo: che un gran numero di persone inizi a porsi domande di questo genere, con molta serietà.

Ma mobilitarsi significa solo porsi delle domande?

No, ovviamente. Significa fornire un contributo proprio al futuro comune: indelegabile, indemandabile, insostituibile, sebbene coordinato in un vasto movimento politico.

Un cordiale saluto


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Editoriale di Andrea Ermano - VENERDÌ 9 LUGLIO 2010


Alcuni ircocervi stanno galoppando


Si accumulano in Italia i segnali di una discontinuità politica lungamente preannunciata. Se essa avverrà per davvero e in che modo, se essa ci condurrà a un governo di responsabilità nazionale o a elezioni anticipate oppure a un temibile vuoto di potere, nessuno lo sa.

Tanto vale occuparsi allora di questioni fondamentali. Perciò questa settimana tratteremo di verità: serenamente, pacatamente.

A modesto parere di chi scrive la nozione di verità si suddivide in quattro concetti. Eccoli.

Se, in primo luogo, affermiamo per esempio: "alcuni capricervi stanno galoppando", questo è vero a due condizioni: che ci siano effettivamente degli animali chiamati "capricervi" e che, laddove esistano, ce ne siano alcuni effettivamente al galoppo.

Invece, dire "due capricervi al galoppo più due capricervi al galoppo fanno in tutto quattro capricervi al galoppo", è vero a prescindere dal fatto che esistano i capricervi. E francamente non interessa nemmeno se i quattro animali, reali o immaginari che siano, stiano effettivamente galoppando. Basta che siano quattro. In questo caso facciamo dipendere la verità da certe regole matematiche.

"È impossibile che in questo preciso istante il mio capricervo stia galoppando e contemporaneamente non stia galoppando". Questo è vero di per sé, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, purché le parole usate abbiano ciascuna un significato definito e univoco.

I tre concetti di verità fin qui esemplificati sono noti anche sotto il nome di: 1) "corrispondenza", 2) "coerenza" e 3) "evidenza". Ne manca uno.

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Ai tre concetti di verità cui abbiamo accennato se ne aggiunge un quarto, che possiamo chiamare "consenso" e che svolge un ruolo molto importante nelle vicende umane, perché il consenso è fondamentale quando ad esempio si attribuisce un nome alle cose e un significato alle parole.

Per esempio, il binomio ideale "Giustizia e Libertà" è stato definito da Benedetto Croce un "capricervo". Il filosofo, che era un dotto professore liberale, potrebbe avere utilizzato con i suoi assistenti anche l'espressione latina "hircocervus", che a sua volta proviene dal greco "tragelaphos", termine coniato da Aristotele all'inizio del suo scritto sull'arte della traduzione.

Italiano, greco o latino che sia, il senso di queste espressioni (affini in tutte le lingue in cui è stato tradotto lo scritto aristotelico cui accennavamo) implica sempre lo stesso concetto: una specie di animale tra il capro e il cervo.

Aristotele aveva coniato questa parola, per esemplificare un'espressione dotata di un senso trasparente: chiunque nell'Atene dell'epoca capiva che "tragelaphos" allude a una specie di animale tra il capro e il cervo. Ma nessuno sapeva dire se questa espressione indicasse un animale che esiste realmente.

Ma, insomma, il capricervo, ircocervo o tragelafo che dir si voglia esiste o non esiste?

Per rispondere bene a questa importantissima domanda, bisogna aggiungere che Aristotele dubitava dell'esistenza dei tragelafi tanto quanto Benedetto Croce denegava la possibilità stessa di un socialismo democratico europeo fondato sul binomio ideale della Giustizia e della Libertà.

Per il liberale Croce non si poteva nemmeno lontanamente concepire una comparazione della Giustizia con Libertà. Eppure alcuni giovani, e non i peggiori, compararono. Eccome se compararono. Così, per l'accademico Aristotele i tragelafi esistevano solo nella fantasia africana di certi tessitori di tappeti, sempreché gli Africani tessessero.

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Oggi siamo portati a ritenere che gli Africani tessessero. E che tessessero il vero. Dato che l'Africa subsahariana pullula di diverse specie bovine simili ad antilopi, cioè capri dotati di corporatura simile a quella dei cervi. E infatti gli zoologi hanno battezzato "Tragelaphus" un sottogenere di antilopi.

Tutto questo implica due importanti conseguenze:

1) Che il tempo è galantuomo dato che alla fine si è ammessa l'esistenza dei capricervi e che di conseguenza il celeberrimo intellettuale post-crociano Massimo D'Alema è diventato il presidente della Fondazione Europea di Sudi Progressisti, primo esemplare della specie Hircocervus Democraticus Europaeus avvistato anche in Italia.

Al neo-presidente D'Alema i nostri auguri più fervidi e sinceri di buon lavoro.

2) La seconda implicazione è una cosa che dobbiamo esserci dimenticata. Ma, tant'è, il tempo causa un affievolimento della memoria. Attenua ogni ogni vulnus dell'anima: l'umiliazione degli sconfitti, l'arroganza dei vincitori, l'inespugnabilità di un enigma.

Buona estate a tutte le nostre lettrici e a tutti i nostri lettori. (9.7.2010)


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Editoriale di Andrea Ermano - venerdì 3 settembre 2010


Evoluzione più benigna ?

L'Italia non solo avrebbe necessità di superare il “porcellum”, ma anche l’esigenza che tale evoluzione abbia luogo in un quadro di larghissime intese. Ecco perché.


La traiettoria assunta dal conflitto d’interessi nel corso delle note violenze mediatiche estive guidate dal presidente del Consiglio contro il presidente della Camera evoca per certi versi quella celebre Locomotiva di Guccini, “lanciata a bomba” contro la terza carica dello Stato. Con tragicomica confusione dei ruoli, però, dato che qui, nelle vesti dell’attentatore suicida, entra in scena non un macchinista proletario, ma uno zar miliardario.

A evitare la deflagrazione istituzionale finale è soccorso a mezza estate il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, garante dei residui equilibri tra poteri dello Stato. E contro di lui, in nome di una legge elettorale nota nella letteratura politologica sotto il nome di “porcellum”, il premier ha rivendicato la facoltà di porre fine alla legislatura quando il suo esecutivo finisse sfiduciato.

Ora, il “porcellum” prevede soltanto che le coalizioni candidatesi al governo del Paese depositino un programma e il nome di un leader. Nello spazio logico del Cavaliere questo significa però che, qualora egli perdesse la maggioranza in Parlamento, ciò comporterebbe il divieto alle forze politiche di formare una nuova maggioranza e, soprattutto, l’obbligo per Napolitano di chiudere la legislatura indicendo elezioni anticipate.

Che ne è del presidente della Repubblica e dei suoi poteri (tra cui quello d'indire o meno nuove elezioni)?

Nello spazio logico del Cavaliere, le prerogative del Capo dello Stato vengono liquidate alla stregua di meri “formalismi costituzionali”. Nello spazio logico del Cavaliere, il “porcellum” – che è una legge ordinaria – vale quanto e più di una riforma costituzionale poiché pretende di revocare una delle principali attribuzioni del Capo dello Stato. Eppure su questo argomento il “porcellum” stesso recita così: “Restano ferme le prerogative spettanti al Presidente della Repubblica” (Art. 3).

Tenendo fermo quest'ultimo punto, si capisce che è la coalizione vincolata al suo leader e, viceversa, il leader vincolato alla sua coalizione, ma il presidente della Repubblica resta il presidente della Repubblica.

Se, per esempio, se i finiani uscissero dalla maggioranza e mettessero in minoranza Berlusconi, la coalizione in quanto tale non esisterebbe più. E il leader, vincolato a essa, avrebbe il dovere di farsi da parte. Perché il vincolo del “porcellum” pertiene al leader e alla sua coalizione. Mentre non impegna, né può in nessun caso impegnare, il Capo dello Stato. E non impegna nemmeno le due Camere in quanto ogni parlamentare, per la Costituzione, rappresenta la nazione “senza vincolo di mandato”.

Per mutare le prerogative del Presidente della Repubblica (o quelle delle due Camere o dei parlamentari in esse) occorre modificare la Costituzione. Per farlo, senza dover sottoporre poi il nuovo testo a verifica referendaria, non bastano le maggioranze semplici e quindi non bastano né i numeri del centro-destra attualmente al governo né quelli del centro-destra al governo nel 2005, anno in cui fu approvato il “porcellum”. Lo stesso discorso vale ovviamente anche per le varie maggioranze di centro-sinistra guidate da Prodi, D’Alema, Amato e poi ancora da Prodi. E identicamente varrebbe per Bersani se fosse lui a portare il nuovo Ulivo al governo.

Per mutare le prerogative del Presidente della Repubblica (o delle due Camere o dei parlamentari in esse) l’Art. 138 della Legge fondamentale esige una maggioranza qualificata dei due terzi.

Il “porcellum” – ben lungi dal possedere questo grado di legittimazione – è solo una legge ordinaria, approvata da una maggioranza semplice che a sua volta è espressione di una coalizione uscita vincente dalle urne dopo avere semplicemente raccolto più voti di altre liste o coalizioni: una “maggioranza relativa”. Ma una “maggioranza relativa” che, in forza di meccanismi elettorali, sia stata trasformata in “maggioranza assoluta” nel Parlamento, resta non di meno minoranza nel Paese. Ha sì titolo per governare, ma certo non per cambiare la forma e i principi dello Stato.

Da quanto detto consegue, a fil di logica, non solo la necessità di superare il “porcellum”, che come ebbe a dire il suo stesso autore è una vera “porcata”, ma anche l’esigenza che tale evoluzione abbia luogo in un quadro di larghissime intese capaci di suscitare il consenso dei due terzi del Parlamento intorno a una nuova legge elettorale.

È questa la strada che l’Italia imboccherà, come spera Napolitano, “verso un’evoluzione più benigna” della vicenda politica? Sembra quasi impossibile. Eppure, un governo di larghissime intese, impegnato su una legge elettorale equa e adeguatamente condivisa, rappresenterebbe un bel passo avanti nel cammino delle riforme necessarie al Paese. (3.9.2010)






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