Editoriale del direttore

Da L'Avvenire dei lavoratori - Periodico socialista dal 1899.

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Versione delle 16:28, 20 set 2010



== La parola “mobilitarsi” ==


Il Vaticano e la Confindustria giocano a frammentare una rappresentanza politica unitaria della laicità e del mondo del lavoro.

di Andrea Ermano

Giunti al punto in cui siamo, l’ultima cosa di cui si sentiva l’esigenza era il deflagrare delle contraddizioni interne al PD. Contraddizioni che vengono da lontano. Grosse, crasse, evidenti. Ma meglio sarebbe se non esplodessero adesso.

E invece è proprio ciò che si è temuto con la ridiscesa in campo di Veltroni. Lui nega di avere detto al suo partito che ci vuole “un papa straniero”, con buona pace delle primarie e degli statuti secondo cui il leader è Bersani in quanto segretario nazionale emerso da un vasta consultazione.

Veltroni ha raccolto stavolta una ben scarsa degnazione. Gli hanno voltato le spalle persino la “sua” direttrice dell’Unità, Concita de Gregorio, e il vecchio mentore, Reichlin, che – “sorpreso, preoccupato, allibito” – ha stigmatizzato “la vanità e l'inconcludenza… delle polemiche che lacerano la sinistra”.

Autorevoli osservatori vedono in questa frattura un sintomo terminale della crisi che attanaglia il maggior partito d’opposizione. Ognun capisce che, se il centro-sinistra non riprendesse quota ora che l’astro di Berlusconi tramonta, il PD potrebbe sfarinarsi, completamente. La destra coglierebbe un’insperata vittoria nella prospettiva (probabile sebbene non immediata) di elezioni anticipate.

Qui si nasconde un’insidia più grande per il popolo di sinistra, popolo molto paziente che, dopo tre lustri di nuovo che avanza, rischia ora di risvegliarsi in uno scenario nel quale le destre potrebbero varcare il Rubicone della maggioranza qualificata puntando dritte sulla Costituzione della Repubblica.

L’insidia non nasce dalla possibilità (già di per sé inquietante) che alla prossima tornata elettorale Berlusconi (o chi per lui) raccolga un’altra volta consensi maggiori a quelli del PD e quindi (grazie al “porcellum”) si aggiudichi la dotazione del 55% dei seggi “per la governabilità”.

Non è questa l' insidia più grande. Il rischio vero è che, insieme al predetto 55% dei seggi, la destra possa disporre di uno zoccolo aggiuntivo intorno al 10%, nel torbido gioco delle parti che già vediamo profilarsi tra Lega Nord e Partito del Sud. Se la destra, nelle sue ambigue articolazioni, riuscisse ad attestarsi sulla soglia dei due terzi dei seggi parlamentari, le si spalancherebbe la possibilità di stravolgere la Costituzione.

Il gruppo dirigente del PCI-PDS-DS-PD porta su di sé gravi responsabilità per questa situazione politica incresciosa. Che cosa può fare per rimediare? Anzitutto dovrebbe abbandonare la pazza pazza idea di dare sintesi al tradizionalismo cattolico, al mercatismo capitalista e alle aspirazioni del movimento operaio dentro al partito unico dell’eccezione italiana. Una sintesi politica di questo genere può realizzarsi in una coalizione di partiti secondo il ritmo delle stagioni politiche, degli accordi di governo o di legislatura. Ma non è mai avvenuta dentro a un unico partito, e men che meno in un partito di sinistra.

Fatta ovvia astrazione dalla questione ambientale, che è trasversale, pare che un partito di sinistra possa (e quindi debba) portare a sintesi due interessi: il laborismo sociale e la laicità dello Stato. Il luogo di questa sintesi storicamente s’identifica con il socialismo democratico europeo.

Nulla vieta ai tradizionalisti cristiani di combattere una visione secolarizzata dello stato e impegnarsi solo in una qualche forma di solidarismo o di carità. Così, nessuno impedisce ai fautori della libera impresa di sostenere un sano laicismo opponendosi sull'altro versante a ogni rivendicazione sociale. Ma non è un caso se, intorno a queste costellazioni, si sono formate, nel corso del tempo, tre grandi famiglie politiche europee: la famiglia socialdemocratica, quella popolare e quella liberale.

Il PCI-PDS-DS-PD, che trae la stragrande parte dei propri consensi dal “popolo di sinistra” nel quale il valori laico-laboristi risultano largamente egemoni, farebbe un bel piacere a se stesso ponendosi stabilmente sotto l’egida del socialismo democratico europeo. E bisogna dare atto qui a Bersani di avere seguito un serio percorso di ritorno alla ragione dopo l’avventura veltroniana; avventura disastrosissima quant'altre mai, essendo costata la caduta del governo Prodi, la lacerazione dell’intero tessuto del centro-sinistra italiano, la sconfitta alle elezioni politiche, il ritorno di Berlusconi, la sconfitta a Roma, in Sardegna ecc., il crollo dei consensi dello stesso PD dal 33% al 23%. Bisogna dare atto a Bersani di avere iniziato a recuperare consensi e credibilità lungo una linea moderatamente socialdemocratica.

Vaticano e Confindustria non apprezzano nulla di tutto questo, ovviamente. E, quindi, si capisce che Bersani non trovi grandi sponde nel sistema dei mass media italiani, che dai “poteri forti” dipendono.

Vaticano e Confindustria pongono, e non certo da oggi, vuoi sulla laicità, vuoi sul laborismo, i loro veti incrociati, che poi non sono neanche dei veri e propri “veti”, ma come dire degli “sconsigli”, che però hanno lo stesso effetto di un vero e proprio veto, dato il diffuso clima di conformismo e ipocrisia. Non per caso, dopo la scissione di Livorno e l’avvento del fascismo, l’Italia non ha più avuto una grande e solida forza riformista.

Vaticano e Confindustria giocano a frammentare una rappresentanza politica unitaria della laicità e del laborismo anche perché la famiglia socialdemocratica europea presenta caratteristiche autonomia incompatibili con i pizzi e i pizzini del Gattopardo nazionale.

I veti incrociati di Vaticano e di Confindustria hanno una loro logica, rispondono alla gelida autoreferenzialità dei “poteri forti” italiani. Ma la gelida logica del potere comporta ormai un serio pericolo per gli equilibri democratici nel Paese.

Se la tenuta del centro-sinistra diventa l’ultima vera garanzia per tenuta dell’assetto istituzionale nato con la Costituzione del 1947, è giunto allora il momento d’iniziare a mobilitarsi.

Con animo tranquillo, ma fermo, iniziamo a ripetere questa parola: mobilitarsi, mobilitarsi, mobilitarsi.




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Editoriale di venerdì 10 settembre 2010

Chi nichilizza?

L’autore dei Fiori del male, Charles Baudelaire, l’avrebbe forse chiamato “razzo”. Per il codice penale è, invece, un “oggetto pericoloso”. Stiamo parlando del fumogeno lanciato durante la Festa Democratica di Torino addosso al segretario generale della CISL, Raffaele Bonanni, al quale l’oggetto ha incendiato il giubbotto. Le giovanotte e i giovanotti del Centro sociale Askatasuna (di cui fa parte Rubina Affronte, l’autrice ventiquattrenne del “lancio”) hanno commentato: «Di giacche Bonanni se ne può comprare altre, un fumogeno non ha mai ucciso nessuno. Non piangiamo certo per un pezzo di stoffa. Contestare qualcuno è legittimo. Se poi quel qualcuno è Bonanni è giusto persino impedirgli di parlare».

E se invece di finire sul giubbotto, il fumogeno avesse colpito il leader sindacale alla tempia? Nella seconda metà degli anni Settanta, ci furono delle giovanotte e dei giovanotti che presero a sparare per strada nelle città italiane, creando un clima di disfida terrorista tra bande armate, più o meno infiltrate, più o meno deviate. Ancora non sappiamo che cosa sia successo esattamente nel tratto di storia nazionale che separa Piazza Fontana dalla Stazione di Bologna.

Anche perciò ci preoccupa leggere che le giovanotte e i giovanotti di oggi liquidino la loro aggressione a Bonanni con tanta nonchalance: «Chi semina vento raccoglie tempesta. E a Mirafiori e all'Iveco, gli operai oggi in cuor loro ridevano».

Negli anni di piombo gli operai non giravano armati, ma spaventati; non parteciparono a quel training di violenza e di arbitrarietà. Così, oggi, dubitiamo che a Mirafiori e all’Iveco “in cuor loro” ridessero.

A proposito di cuore, il ministro Brunetta, accusando di "squadrismo" gli uomini del PD per aver consentito le aggressioni di questi giorni, ha dichiarato contestualmente si continuare a sentirsi un socialista, anzi come dice lui un “socialista del PDL”. Ora, il PDL aderisce al PPE, forza politica europea d'ispirazione democristiana e principale avversaria del Partito del Socialismo Europeo (PSE). Ne consegue che l’autodefinizione del ministro contraddice la realtà, ma Brunetta potrà ovviamente continuare a dirsi “socialista”, per il godimento suo e dei mass media italiani i quali amano scaricare sui socialisti ogni possibile bizzarria. Resta un fatto, tuttavia: non basta dirsi socialisti per esserlo. Anche in politica occorre un minimo sindacale di coerenza e di pudore, e visto che ormai solo i pochissimi sembrano ricordarlo, ci permettiamo sommessamente di sottolinearne l’esigenza – dalle colonne di questa testata, che nel socialismo italiano, europeo e internazionale conduce ininterrottamente il proprio impegno da un secolo e più.

In modo particolare, poiché il socialismo italiano (e con esso i nostri predecessori alla guida de L’Avvenire dei lavoratori) ha pagato “un alto tributo di sangue” per riportare la democrazia in Italia, noi disconosciamo apertamente ogni legittima possibilità di definirsi socialista da parte di chi, dopo aver giurato in quanto ministro fedeltà alla Costituzione, pronuncia, circa il primo articolo della medesima, queste inaccettabili parole: «Stabilire che l'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro non significa assolutamente nulla».

Chi afferma questo non può credibilmente proclamarsi socialista. Dopodiché, è pur possibile che il ministro abbia ragione nel sostenere la presenza all’interno del PD di qualche elemento un po’ “squadrista”, se così vogliamo definire coloro che commettono delle violenze volte ad azzittire l’avversario. Il gruppo dirigente del PD non può non sapere che il ripetersi d’intimidazioni nei confronti degli ospiti della Festa Democratica ricade sotto la diretta responsabilità dei padroni di casa. Perché qui non si tratta più di un fatto isolato. Quando la violenza incomincia a diventare consuetudine, allora qualcosa che non funziona c’è.

E c’è, infatti, l’antico e mai sopito odio massimalista nei confronti dei riformisti. Come pure c’è, in aggiunta, un’ambigua condiscendenza nei riguardi dell’improperio antipolitico, che naviga sotto la costellazione della violenza verbale, ma che poi immancabilmente preme (quanto meno nella mente di alcuni) per approdare dalle parole ai fatti. Questa tendenza va contrastata prima che traligni.

Chiunque abbia un po’ di sale in zucca vede, però, al di là del gioco delle parti, una situazione di migliaia e migliaia di giovani, scaricati in mezzo alla giungla di un egoismo sociale estremo, fatto di precariato, disoccupazione e carnevalizzazione dell’esistenza. In questo contesto, le giovanotte e i giovanotti torinesi non hanno solo torto, nel rammentarci minacciosamente che chi semina vento raccoglie tempesta. Hanno anche un grano di ragione.

E allora, per ridurre lo spargimento di venti tempestosi e per evitare che i tempi verso i quali muoviamo imbocchino la strada sbagliata, sarebbe consigliabile pagare un costo pur di far spazio ai giovani e sollecitarli a conquistarsi il loro futuro nella società, con l’unico strumento universalmente lecito: il lavoro.

Perché questa, a ogni appuntamento della nostra storia, è la questione politica fondamentale: su quale architrave morale potrà mai strutturarsi una pacifica convivenza tra gli italiani se non sul consenso del popolo lavoratore? Chi nichilizza il lavoro, semina vento.




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